La Palazzina LAF di Sebastio, Signorile, Vulpio e Sgarbi, e poi quella della redazione di un quotidiano…

 

L’industria, i giornali e la tv: un piccolo viaggio negli ultimi venticinque anni dopo il racconto dello scandalo del regista Riondino. In molti sapevano e ignorarono, ma anche il mondo dell’informazione ha molto da farsi perdonare. Palazzina Laf, il film con cui ha debuttato come regista l’attore tarantino Michele Riondino, ha acceso l’interesse su uno scandalo di cui in pochissimi, alla fine degli anni Novanta, si interessarono. Meno ancora si indignarono. La tolleranza al sopruso è sempre molto grande, quando il sopruso non ci riguarda direttamente. Così la storia non cambia mai, perché in fondo gli esseri umani sono irriformabili.

di TONIO ATTINO, 20 dicembre 2023

 

Moltissimi italiani hanno scoperto con venticinque anni di ritardo che cos’era la Palazzina Laf. Prima, qualcuno ne aveva sentito parlare casualmente. Tanti invece sapevano, ma fecero finta di nulla. Quella della Palazzina Laf è una storia esemplare esplosa nel 1997, ma dire esplosa è una semplificatoria formula giornalistica. Perché non esplose per niente. Avrebbe dovuto – per i modi, la gravità, le dimensioni – suscitare un unanime moto di rivolta. Taranto invece non reagì. Più di settanta dipendenti del centro siderurgico Ilva furono confinati in un edificio ormai vuoto, la palazzina del laminatoio a freddo (Laf), soltanto perché non avevano accettato la novazione del rapporto di lavoro, cioè il demansionamento imposto dal datore di lavoro, Emilio Riva. Il quale, acquisita l’Ilva dallo Stato nel 1995, aveva deciso di riformare le relazioni interne all’azienda rendendo marginale il potere contrattuale dei dipendenti, spesso – come in questo caso – neutralizzandolo del tutto. Chi era un impiegato o un tecnico informatico, per esempio, poteva tranquillamente diventare operaio, secondo l’impostazione (e l’imposizione) aziendale. Il dipendente non aveva la facoltà di scegliere. Doveva accettare. Perciò Riva faceva sottoporre nuovi contratti e chi non ci stava a firmarli finiva confinato nella Palazzina Laf. A fare cosa? Niente, assolutamente niente. Perché la Laf non era un luogo di lavoro: era concepito come luogo di confino, di castigo, un luogo del tutto improduttivo della fabbrica.

Non c’erano neanche sedie in numero sufficiente affinché ciascuno potesse stare seduto. C’era però il controllore, cioè l’uomo che l’azienda aveva delegato per spiare i confinati. Era il “responsabile del personale della Palazzina Laf”, qualifica dietro la quale si nascondeva un ruffiano adibito a compiti di spionaggio, uno “zelante esecutore delle direttive dell’azienda”, scriverà poi nella sentenza il giudice, cioè un personaggio che riferiva al padrone e tentava di convincere i dipendenti ad accettare le proposte dei Riva perché “avete famiglia”, “siete ormai anziani”, “l’Ilva di voi non sa che farsene” e ricatti di questo tenore.

 

Casella di testo:  Emilio Riva

 

La politica, i sindacati, il giornalismo, tutti avrebbero dovuto protestare, ribellarsi, denunciare. Non avvenne nulla. Salvo episodiche iniziative dei singoli, il caso Palazzina Laf affondò nel silenzio. Addirittura qualcuno commentava: “Che cos’hanno da lamentarsi quelli lì? Non lavorano e vengono pagati”. Quel che successe è ormai abbastanza noto: la magistratura aprì un’inchiesta, ne seguì un processo, la dottoressa Marisa Lieti, responsabile del servizio di igiene mentale dell’Asl, tenne in terapia decine di lavoratori. Depressi. Tormentati dal comportamento persecutorio dell’azienda. Non aveva mai visto una cosa del genere. Si indignò – almeno lei riuscì a farlo – e denunciò pubblicamente. Si cominciò così a conoscere la parola mobbing, neologismo di origine anglosassone (dal verbo to mob, aggredire), introdotta in Italia dallo studioso Harald Ege, il quale aveva illustrato le tecniche con cui si configurava il terrore psicologico nei luoghi di lavoro.

 

Casella di testo:  Franco Sebastio

 

La mattina del 7 novembre 1998 ci fu la svolta. Due magistrati entrarono nella palazzina Laf. Avevano annunciato la visita. L’azienda era preparata, li aspettava. I due magistrati erano Franco Sebastio, poi diventato procuratore, e Alessio Coccioli, uno dei giovani sostituti, oggi procuratore aggiunto a Bari. Arrivarono insieme a un sottufficiale della Guardia di finanza, il maresciallo Ivan Tripaldi, e a un sottufficiale dei carabinieri, il maresciallo Gaetano Annicchiarico. Il fatto che fossero entrambi in divisa – circostanza voluta, non casuale – rese la visita più solenne, simbolica. Nel regno dell’ingiustizia arrivava la giustizia, questo era il segnale. Il lungo corridoio sul quale affacciavano gli uffici si affollò in un istante, i lavoratori andarono incontro ai magistrati e ai sottufficiali e a loro parve - racconta Angelo Chiochia – a quei tempi autista della procura, “vedere gli americani nel giorno della liberazione”.

 

Casella di testo:  Alessio Coccioli

 

Se normalmente non facevano gruppo, diffidando l’uno dell’altro, timorosi che vi fosse sempre tra di loro un delatore pronto a danneggiarli, i lavoratori confinati nella Laf quel giorno avvicinarono i magistrati, raccontarono, spiegarono che cosa accadeva lì dentro e perché vi erano arrivati. Non aspettavano altro. L’azienda, conoscendo la data dell’ispezione, s’era premurata di riparare qualche presa di corrente e rendere più ospitale l’edificio, che tuttavia restava spoglio, con i vetri rotti, scrivanie e sedie raccattate un po’ qua e un po’ là, un telefono a muro.

 

Fu una mossa prevedibile, anzi desiderata dagli investigatori. E bastò, a Sebastio e Coccioli, per mettere sotto sequestro la palazzina, avendo l’azienda alterato lo stato dei luoghi sottoposti a indagine. Il reparto-lager venne chiuso e la sua storia si concluse perciò nel novembre 1998. L’inchiesta sfociò nel processo e, nel 2001, nella sentenza di condanna letta in aula dal giudice Genantonio Chiarelli per tutti coloro che avevano contribuito a mettere in pratica il mobbing nei confronti dei lavoratori. Sebastio rimase turbato da quell’esperienza. “Trovarsi davanti a un reato è un conto, vedere una cosa brutta è un altro conto. Quella era una cosa brutta”, mi raccontò. Perciò mise tutta la sua passione nella requisitoria. Franco era un amico da anni, parlavamo spesso in privato benché non si lasciasse mai sfuggire una sola indiscrezione sul suo lavoro. Raccontava che quella probabilmente sarebbe stata la sua ultima requisitoria; rifletteva sull’opportunità di lasciare la magistratura. Benché avesse servito la giustizia con equilibrio e rigore, era rimasto ai margini dell’attività della procura retta da Aldo Petrucci. Quindi fece sentire in aula quanto quella vicenda l’avesse disturbato, indignato, e quanto offensive erano state le dichiarazioni dei padroni della fabbrica quando avevano detto, riferendosi ai lavoratori della Laf, “ma noi li paghiamo”, come fosse sufficiente pagare per disporre di una persona, tenendola in un angolo. Ignorando, anzi disprezzando i contratti e le leggi.

Confermata in secondo grado e in Cassazione, quella sentenza dovrebbe essere un caposaldo nella storia dei diritti dei lavoratori. Ma non è detto che lo sia sul serio, in un Paese in cui le sentenze restano spesso testimonianze senza effetti pratici, purtroppo inutili a costruire un futuro più civile del presente. Ognuno naturalmente ha le sue idee e le fa legittimamente discendere dalle esperienze, dalle conoscenze, dai ricordi personali. La Palazzina Laf è un ricordo sicuramente istruttivo, non solo per me. Ma nel mio caso si porta dietro altri due ricordi. Il primo lo ha fatto riaffiorare inconsapevolmente Marisa Lieti.

 

Potevo dimenticare quella vecchia storia? No, non potevo. A ottobre Marisa mi telefona per chiedermi se ho per caso tra le mie carte una copia del luglio 1998 di Quotidiano, il giornale in cui ho lavorato per sedici anni. “Dammi due minuti, lo cerco subito” le dico. Nell’archivio ho le collezioni dei giornali, così sfilo il fascicolo “Quotidiano 1998”, comincio a sfogliarlo. Mi accorgo però che la raccolta si conclude a giugno. Rifletto un istante, la dottoressa Lieti è ancora in attesa. “Marisa, non ce l’ho”, dico. Faccio una pausa, rifletto, capisco perché non posso trovare quella copia. “Ah, ecco, non può esserci luglio perché a Quotidiano sono stato fino a giugno 1998, poi lo sai, anch’io ho avuto la mia personale Palazzina Laf..”. Momento di silenzio. “Ah, è vero”, dice lei.

 

Eccola qui, la storia. Mi era sfuggita ma non potevo rimuoverla perché è stata una tappa importante – professionalmente e umanamente – della mia vita. Anche Marisa Lieti l’aveva seguita con partecipazione e diciamo un certo con interesse professionale. Era successo questo. L’editore del giornale nel quale ero entrato nel 1982, Quotidiano, era – sebbene non vi figurasse direttamente – Claudio Signorile, socialista, ex ministro dei Trasporti, leader di quella che venne efficacemente definita sinistra ferroviaria del partito socialista. Quando la sua carriera era declinata e aveva smesso di fare danni in politica, Signorile aveva deciso di dedicarsi completamente al giornale fondato nel 1979 e diffuso nell’area ionico-salentina. Il suo meraviglioso progetto era farlo diventare “il giornale delle cento città”.

 

Casella di testo:  Claudio Signorile

 

Liquidato il direttore Vittorio Bruno Stamerra e messo al suo posto il fidato Giulio Mastroianni, l’ex ministro – un tipo intraprendente e con ambizioni mai limitate alla normalità – cominciò a impiantare un quotidiano a Bari, aprì redazioni in Campania e una agenzia di informazione a Roma, riuscendo nella mirabile impresa di sbagliarle tutte e di demolire il giornale da cui doveva germogliare il megaprogetto, cioè Quotidiano di Brindisi, Lecce e Taranto. Io e altri colleghi avevamo guardato fin dall’inizio con molta preoccupazione alla folle, ambiziosa scalata editoriale di Signorile, considerandola una operazione kamikaze in cui lanciava la redazione, quindi tutti noi. Perciò avevamo cercato di osteggiarla avendo accanto il sindacato pugliese dei giornalisti, capitanato allora da Federico Pirro, giornalista Rai.

Naturalmente ci eravamo guadagnati l’ostracismo dell’editore e dei suoi palafrenieri. Ma non poteva che andare come andò. Il fantomatico giornale delle cento città fu un fiasco clamoroso e stupisce ancora il fatto che un genio come Signorile, accreditato dai suoi accoliti di una intelligenza al di sopra della media, un tipo al quale era stato purtroppo affidato per anni un pezzo della gestione del Paese, non l’avesse intuito. Così quando le casse di Quotidiano furono al di sotto dello zero, Signorile mise in atto la fase due del progetto. Era una furba scappatoia.

 

Casella di testo:  Un numero del giornale dedicato dal sindacato giornalisti pugliesi al caso Quotidiano nel 1998

 

La editrice Edisalento, cioè la società proprietaria del giornale (la sua società), decise di vendere la testata, unico bene con qualche valore, facendo affondare tutto il resto. Insomma mandava a picco una nave carica di debiti, imbarcando su un’altra scialuppa (la appena costituita Alfa Editoriale Srl) la testata, cioè il logo, quindi la storia di un giornale che aveva valicato il muro delle ventimila copie di vendita. Signorile insomma vendette un bene a se stesso, collocandolo in una società senza debiti. Ma decise di fare transitare nella nuova società, affinché Quotidiano potesse tornare in edicola con un nuovo editore che in realtà era sempre lo stesso, solo i redattori graditi, quelli cioè che non avevano rotto le palle nel corso della demolizione. In otto restammo fuori: oltre me, c’erano Marcello Tarricone, Marcello Orlandini, Roberto Guido, Paolo Melchiorre, Massimo Melillo, Vito Luperto, Franco Sinisi.

 

L’Alfa Editoriale assunse solo 23 giornalisti e ci fu una corsa pietosa alla poltrona. Signorile garantì chi aveva garantito lui nella suicida operazione di espansione. Chi invece era in bilico, insicuro di poter salire a bordo, si preoccupò di trovarsi la raccomandazione giusta, e andava bene qualunque cosa: il politico, l’assessore o l’implorazione del “tengo famiglia”, una tecnica infallibile del leccaculismo italiano al quale ovviamente non sfugge la categoria dei giornalisti, che dovrebbe esserne teoricamente immune ma dispone viceversa di falangi di specialisti. A piedi restammo solo noi otto. E un giorno ci ritrovammo nella sede leccese di viale degli Studenti, la redazione centrale del giornale. Era la nostra palazzina Laf. C’erano ancora le scrivanie, addirittura le sedie. Tutto qui. Quando un pretore definì quella vendita “in frode alla legge”, fu la scoperta dell’acqua calda, ma non successe nulla. L’operazione-vendita andò avanti come se nulla fosse accaduto, Signorile cedette una partecipazione della nuova società proprietaria della testata a Francesco Gaetano Caltagirone, editore del Messaggero, che successivamente ne diventò proprietario.

 

Poi un altro giudice reintegrò noi otto. Dovevamo tornare al lavoro. L’azienda ottemperò parzialmente alla sentenza. Cioè ci corrispose il minimo di stipendio ma non tornammo mai in servizio. Eravamo pagati per non lavorare. Il modello Palazzina Laf era replicato nel mondo dell’informazione. Non a caso fummo invitati a un convegno, nel salone della Provincia di Taranto. I lavoratori della Laf chiesero un nostro intervento e i miei colleghi – i miei amici – mi chiesero di portare la nostra testimonianza. Alla fine di questo percorso, solo due di noi otto sono tornati a Quotidiano: Vito Luperto e Franco Sinisi. Inutile domandarsi come potessero giornalisti che non mossero un dito e sostennero (con le azioni o con il silenzio) l’operazione di Signorile scrivere poi di Ilva, di Palazzina Laf, di soprusi. Ma così andò. Alla fine, ognuno ha continuato nella sua strada professionale, genuflesso o in piedi. Perché non siamo tutti uguali ed è un bene. Però anche quella storia dimostrò che le sentenze non cambiano nulla. Sono passati venticinque anni. Gli stessi anni, appunto, della Palazzina Laf.

 

Il grande pubblico avrebbe potuto conoscere già 12 anni fa la storia della Palazzina Laf, ed è questo il mio secondo ricordo. Nel 2011 Carlo Vulpio, inviato del Corriere della Sera e mio caro amico, mi offre di collaborare a una trasmissione Rai di cui è co-autore. La condurrà Vittorio Sgarbi, in prima serata su Rai1, sei puntate in tutto. Ci tocca anche Sgarbi è il titolo. Carlo Vulpio ha già scritto di Taranto dedicandole un libro, La città delle nuvole, pubblicato prima dell’inchiesta giudiziaria Ambiente Svenduto (lo scandalo del disastro ambientale) che avrà in prima linea ancora Franco Sebastio, promosso nel frattempo procuratore della Repubblica.

 

Casella di testo:  La registrazione del servizio mai andato in onda

 

Con Carlo siamo molto spesso in sintonia, ci seguiamo e ci aiutiamo a vicenda, ha letto quanto ho scritto in passato sulla Palazzina Laf (al quale ho dedicato anche un capitolo sul mio libro Generazione Ilva uscito nel 2012) e conosce i miei brillanti trascorsi di esiliato del giornalismo. Mi chiede se mi piace l’idea di occuparmi di nuovo della Palazzina Laf. Gli dico che ci sto, mi metto al lavoro. Contatto un gruppo di vittime di Riva. Una “squadra” andrà a Roma, in trasmissione. C’è Claudio Virtù, uno dei lavoratori. Ha raccontato la sua disavventura in Palazzina Laf, libro curato dall’avvocato Carlo Petrone e dal centro studi Calamandrei di Taranto. C’è Giovanni De Padova. Ci saranno Roberto Leone, Giuseppe Todaro. In nove sono pronti. Si va a Roma su un autobus messo a disposizione dalla Rai. E’ il 17 maggio. Il giorno dopo c’è il debutto di Ci tocca anche Sgarbi. Gli autori decidono, prima di cominciare la diretta, di registrare la storia della Laf. Andrà in onda la settimana successiva. Nella prima, Carlo proporrà lo scempio delle pale eoliche nel fantastico panorama della Puglia. Ci si prepara alla registrazione. Gli ex lavoratori Ilva sono schierati nello studio, Carlo ne racconta la storia, li fa parlare.

 

 

Sarà bellissimo sbattere sul principale canale Rai in prima serata una storia di industria, sud, discriminazione, violazione dei diritti, fare vedere all’Italia le facce dei lavoratori, sbandierare le loro vite, cioè la repressione alla quale sono stati sottoposti nella grande azienda venduta dallo Stato a Emilio Riva. E mostrare a milioni di persone quanto il Mezzogiorno sia una enclave in cui i diritti si calpestano, in cui ogni potente decide le regole e le impone. Dobbiamo però attendere una settimana,la seconda puntata. Ma questo momento non arriverà mai. Il giorno dopo, durante il viaggio  di ritorno a Taranto, ascoltiamo da un radiogiornale che la trasmissione di Sgarbi è stata soppressa dalla direzione generale della Rai. Una sola puntata, zac, cancellata. L’hanno vista due milioni di persone, solo due milioni di persone, l’8,27 per cento di share. Troppo poco per tenerla in vita. Oggi, 2023, siamo abituati ad altri numeri, ad altre decisioni, ad altri tempi di reazione. Avanti Popolo, la trasmissione Rai3 condotta dall’ex ministro di centrodestra Nunzia De Girolamo, moglie del parlamentare Francesco Boccia (Pd), è riuscita a fare in prima serata anche meno del 2 per cento di share. L’esordio il 10 ottobre, 200mila euro di costo a puntata. E il 27 novembre i quotidiani riportano la notizia che i vertici Rai hanno deciso di non confermarla nel palinsesto invernale. Ci hanno messo un po’ anche per bocciare Pino Insegno e il suo fallimentare Mercante in fiera, su Rai2, mai arrivato al tre per cento di share, ma sceso sotto il due.

 

Casella di testo:  Vittorio Sgarbi prima della prima puntata dell’unica andata in onda del programma

 

 

Sgarbi, piaccia a no il suo piglio, il suo eloquio, il carattere iracondo e altre faccende di cui i giornali e le tv si occupano ogni giorno, fu liquidato in dodici ore. Un bel record. Qualunque sia stato il motivo, non ci importa. Stiamo a noi, alla Laf. Nessuno ha mai visto e vedrà mai quel servizio, un documento che avrebbe mostrato agli italiani le vittime di una storia negativamente esemplare, da raccontare nelle scuole affinché i ragazzi imparino a difendersi. E’ ovvio, in un mondo senza memoria non si può costruire niente di buono. E un mondo senza memoria finisce nelle mani di chi ce lo racconta a suo piacimento, magari descrivendolo come un mondo di guardie e di ladri, di furfanti e di vendicatori: divisi, gli uni e gli altri, da una linea netta, i buoni di qui e i cattivi di là. Lo schema è volutamente troppo semplice, ideale e truffaldino. Dipende da chi traccia la linea e così un furfante può passare per statista, un cialtrone per santo, un industriale fuorilegge per benefattore. E ovviamente un giornalista leccaculo per un giornalista vero, capace di indignarsi comodamente al cinema, venticinque anni dopo.

 

Dal blog di Tonio Attino: https://tonioattino.it/