Notiziario Patria Grande - Gennaio 2024

 

NOTIZIARIO GENNAIO 2024

 

GRANMA (CUBA) / MONDO / MEDIO ORIENTE

Il paradosso d’Israele o l’indifferenza dell’inferno

 

RESUMEN LATINOAMERICANO (CUBA) / ESTERI / GUATEMALA

Guatemala, un colpo di Stato sventato

 

MISION VERDAD (VENEZUELA) / INTERNI / VENEZUELA

Ciò che Maduro prospetta per il 2024. Accordi, bilanci, progetti e sfide

 

GRANMA (CUBA) / ESTERI / FORUM DI DAVOS

Una «vetrina» per ricchi

 

GRANMA (CUBA) / LA GESTIONE DEL DISSENSO NELLE DEMOCRAZIE OCCIDENTALI

Il “pericolo rosso” e la caccia alle streghe: cose del passato?

 

GRANMA (CUBA) / ESTERI / IL CASO EPSTEIN

Il “libro nero” di Jeffrey Epstein o la decadenza morale ignuda

 

GRANMA (CUBA) / ESTERI / LA PIAGA DEL NARCOTRAFFICO

Nuestra America: narcotraffico e politica indissolubilmente uniti?

 

 

SPECIALE ECUADOR

 

SINPERMISO / ESTERI / LA GUERRA CONTRO LE DROGHE IN ECUADOR

L’Ecuador è vittima della guerra contro le droghe

 

CONTEXTOLATINOAMERICANO / ATTUALITA’ / ECUADOR

La violenza straripa

 

SINPERMISO / ANALISI / DOSSIER ECUADOR

> Ecuador, cosa c’è dietro e le risposte femministe

> Si criminalizzano e si incarcerano le persone degli strati popolari

> Piano Ecuador o la “ballata sulla droga” con molti capi

>Come è stato possibile che l’Ecuador sia precipitato nell’inferno omicida?

 


 

 

GRANMA (CUBA) / MONDO / MEDIO ORIENTE

Il paradosso d’Israele o l’indifferenza dell’inferno

 

 

«La storia si ripete due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa». È la famosa frase con cui comincia Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte di Karl Marx, e nel tempo molti autori l’hanno ripetuta.

Senza dubbio, la storia spesso non si ripete solo come farsa, ma come nuova tragedia, e con conseguenze funeste. Sul piano dei paradossi, la storia non smette di sorprenderci.

Negli anni ‘40 del secolo scorso, gli ebrei divennero paria. I nazisti commisero contro di loro uno spaventoso genocidio, più di sei milioni furono assassinati nei campi di sterminio.

Oggi, senza dubbio è lo stato d’Israele che converte in paria se stesso commettendo un orrendo genocidio contro il popolo palestinese. Il mondo guarda con spavento ai bombardamenti sulla popolazione civile di Gaza che hanno ucciso milioni di persone, per il 70% donne e bambini. Si bombardano ospedali, scuole, negozi, ambulanze.

Martin Griffiths, segretario generale aggiunto ai Temi Umanitari dell’ONU, ha dichiarato: «Gaza si è trasformata in un luogo di morte e disperazione. Non c’è acqua, non c’è scuola, ci sono solo i tremendi suoni della guerra, un giorno dopo l’altro».

Il Governo del Sudafrica, di fronte a questo tipo di scenario, ha avviato procedimenti legali contro Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia de L’Aia, l’organo giudiziario principale delle Nazioni Unite, precisando che Israele commette una grave violazione della Convenzione per la prevenzione del delitto di genocidio.

In questa denuncia si afferma che le azioni d’Israele hanno l’intenzione specifica di distruggere la popolazione della Striscia di Gaza come parte del gruppo nazionale ed etnico palestinese più ampio, e che questa atrocità è patrocinata e comandata dallo stesso Stato. Il governo di Benjamín Netanyahu, di fronte alla denuncia, ha reagito con indignazione, facendosi passare per vittima e argomentando che l’iniziativa sudafricana rappresenta una «diffamazione del sangue», rifacendosi alle calunnie pronunciate contro gli ebrei durante il Medio Evo, quando erano falsamente accusati di usare il sangue dei bambini cristiani in rituali di magia nera.

È paradossale che Israele accusi altri di antisemitismo, visto che i palestinesi sono anch’essi popolo semita e vengono massacrati proprio dagli israeliani. Sono paradossi anche gli sforzi per insediare la popolazione di Gaza in Congo «e questo manifesta una chiara volontà di pulizia etnica», quando proprio al termine della II Guerra Mondiale il movimento sionista respinse la proposta di creare uno Stato israeliano in terre africane. Ma ci sono altri paradossi.

Nel 1948, lo Stato d’Israele appena creato fu uno dei patrocinatori iniziali della Convenzione contro il genocidio, uno dei primi a firmarla nel 1949, e poi a ratificarla nel 1950. Fu Raphael Lemkin, un giurista polacco di origine ebrea, il primo ad utilizzare e definire il termine «genocidio».

In qualche modo Israele ignora e giustifica il carattere genocida delle sue azioni a Gaza la cui portata, nell'ambito della Convenzione, include uccidere, provocare danno fisico grave e imporre deliberatamente al gruppo condizioni di vita studiate apoositamente per provocarne la distruzione fisica. La Convenzione precisa che per considerarsi genocidio non è necessario sradicare completamente il gruppo: è sufficiente avere l’intenzione di farlo.

È significativo che alti rappresentanti del Governo israeliano, a partire dal primo ministro Benjamín Netanyahu, si siano ripetutamente riferiti ai palestinesi come ad «animali umani», ed esprimono il desiderio di spianare Gaza.

Nel novembre scorso, il ministro israeliano Amichai Eliyahu aveva ammesso che lanciare una bomba atomica sulla Striscia di Gaza era «una delle possibilità» considerate dal suo Governo.

I crimini contro il popolo palestinese non sono una cosa nuova, sono molto datati: nel 1979, il noto poeta cubano Luis Rogelio Nogueras andò a visitare quello che fu l’orrendo campo di concentramento di Auschwitz, dove un milione di ebrei furono sterminati, e l’esperienza gli ispirò una poesia che giunge ora alquanto a proposito:

«Penso a voi, ebrei di Gerusalemme e di Gerico; penso a voi, uomini della terra di Sion, che stupefatti, nudi e atterriti cantavate la hatikvah nelle camere a gas; penso a voi e al vostro lungo cammino dalle colline della Giudea sino ai campi di concentramento del III Reich; penso a voi e non posso comprendere  come abbiate dimenticato tanto presto il vapore dell’inferno».

Antonio Rodríguez Salvado e GM per Granma Internacional, 15 gennaio 2024

 


 

 

RESUMEN LATINOAMERICANO (CUBA) / ESTERI / GUATEMALA

Guatemala, un colpo di Stato sventato

 

 

  

Il 14 gennaio avverrà il tanto atteso cambio di potere in Guatemala. Il tentativo d’impedire che il governo legalmente eletto assumesse il potere è stato evitato da proteste sociali imponenti. 

Il 2023 è stato un anno impegnativo, pieno di sfide, e ha fatto da banco di prova per la direzione futura dell’intera nazione. L’elezione stessa di Bernardo Arévalo, il suo successivo insediamento e la sostituzione di cariche politiche sono state ostacolate oltre ogni limite: esiste il cosiddetto "patto dei corrotti" fra alti funzionari del governo, in maggioranza di destra, e personaggi che occupano posti importanti nel settore economico. Questo "patto dei corrotti" era riuscito ad esercitare un’influenza significativa sul sistema politico, ad eccezione del potere esecutivo negli ultimi anni. Tutto indicava che il Guatemala sarebbe passato da una democrazia ibrida all'autoritarismo. 

Tuttavia nel giugno scorso, al primo turno delle elezioni presidenziali, la popolazione guatemalteca votò per il partito “Movimiento Semilla” di Arévalo, fino a quel momento rimasto in sordina, avviando così un cambio di potere. Al secondo turno nel mese di agosto, i guatemaltechi scelsero esplicitamente Semilla come nuovo partito di governo. Il patto dei corrotti adottò svariate misure per impedire al nuovo governo di assumere l’incarico. In maniera sorprendente ed impressionante autorità, comunità ed assemblee distrettuali indigene decisero allora di scendere in strada. Le proteste massicce che seguirono paralizzarono il Paese per un mese. Il “quasi golpe” fu sventato da un sollevamento popolare senza precedenti. 

 

Democrazia dal basso 

Il processo di regressione autoritaria in Guatemala aveva ottenuto incrementi significativi. Oltre alla questione elettorale, la criminalizzazione e persecuzione politica avevano plasmato anche il clima interno. Le campagne di terrorismo psicologico contro gruppi ed individui politicamente organizzati e la persecuzione ed intimidazione legale nei loro confronti, ricordavano le operazioni militari dell'epoca delle dittature. La diffusione d’informazioni false sul partito Semilla e le proteste massicce attraverso i social avevano altresì generato una grande incertezza. 

Già nel 2022, prima che iniziasse la campagna elettorale, vennero incarcerati il noto giornalista José Rubén Zamora, l'ex capo della Procura Speciale Contro l'Impunità (FECI) Virginia Laparra e l'avvocatessa Claudia González. Il fatto che le voci critiche venissero imprigionate prima delle elezioni presidenziali provocò una profonda indignazione ed espressioni di solidarietà da parte della popolazione. Ciò nonostante, continuò la persecuzione e criminalizzazione sistematica di avvocati, giornalisti ed attivisti da parte del comitato elettorale statale guidata da Consuelo Porras. In brevissimo tempo, almeno 45 persone fuggirono in esilio e oltre 10 persone dovettero affrontare processi penali. 

Inoltre, il governo di Alejandro Giammattei all’epoca appena insediato, si screditò mediante una palese corruzione. Particolarmente scioccante fu la malversazione dei fondi destinati alla vaccinazione contro il COVID-19. Secondo il Ministero della Sanità (MSPAS) morirono a causa del virus fra le 10.000 e 11.000 persone. 

L'indignazione e disapprovazione dei guatemaltechi si mostrò più tardi nelle urne: il partito Movimiento Semilla di Bernardo Arévalo e della sua candidata alla vice presidenza Karin Herrera, ottennero il 58% dei voti, mentre Sandra Torres, candidata presidenziale della UNE (Unidad Nacional de la Esperanza) nonché parte del patto dei corrotti, vennero penalizzati conseguendo solo il 36,9% dei voti. 

 

Continuità e cambiamento 

Dopo questo risultato, il Pubblico Ministero avviò una campagna di persecuzione illegale contro Arévalo, Herrera ed il suo partito. Il repertorio tecnocratico della burocrazia cercò di scongiurare un cambio di potere. I procedimenti per escludere il partito Semilla o il riesame dei risultati elettorali basato su motivazioni inconsistenti furono solo alcune di queste misure. I movimenti sociali, specialmente le comunità indigene, non permisero che ciò avvenisse senza reagire, risposero a livello nazionale con proteste pacifiche, festose e quasi ludiche, permettendo che Semilla, tradotta come seme di speranza, germinasse. Il culmine della protesta fu lo sciopero generale a tempo indeterminato con blocchi a livello nazionale, iniziato il 2 ottobre e che, nel momento in cui si scrive questo articolo, dura ormai da oltre 100 giorni. 

In seguito alle proteste, vennero insediati tre accampamenti di resistenza da parte dei gruppi indigeni: due a pochi isolati dal Parlamento ed un altro, tuttora esistente, di fronte alla sede del Pubblico Ministero nel centro di Città del Guatemala. C’è da aspettarsi che le proteste continuino fino al 14 gennaio, per assicurare il ritorno alla democrazia e l’insediamento di Arévalo ed Herrera. Ci sono stati anche appelli per le dimissioni del pubblico ministero generale Consuelo Porras, dei procuratori Rafael Curruchiche e Cinthia Monterroso, e del giudice Fredy Orellana, considerati complici del golpe. 

 

Nuovo gabinetto ed alte aspettative  

Nel breve periodo, l’insediamento del governo di Bernardo Arévalo è un successo, ma il nuovo governo affronta sfide importanti: rafforzare la democrazia in una nazione le cui istituzioni continuano ad essere permeate da strutture di potere illegali; affrontare una burocrazia corrotta ed inefficiente; abbordare i problemi più urgenti di attenzione alla salute e all’educazione, trascurati per decenni dalla firma dell'accordo di pace nel 1996 ed associati ad alte aspettative da parte della popolazione; creare governabilità all’interno di un apparato amministrativo e di istituzioni politiche faziose, dominate da interessi opposti. 

Il prevenire un colpo di Stato, nel modo in cui ciò è avvenuto, consente comunque di avviare un percorso per risanare una democrazia deteriorata. Tuttavia, la lotta per il potere continua anche dentro le strutture dello Stato. Ad esempio: il patto dei corrotti continua ad avere grande influenza con la sua maggioranza al Congresso. Le consistenti mazzette prima della presa in carico del nuovo governo avevano lo scopo di assicurarsi delle maggioranze. Pertanto i rappresentanti del Movimiento Semilla devono cominciare il loro mandato senza lo status di partito ed in una situazione in cui l'equilibrio di potere è fortemente frammentato. Posti importanti nel sistema giudiziario continuano ad essere occupati da coloro che tentarono a tutti i costi di sabotare i risultati elettorali. Allo stesso tempo, settori dell'economia continuano a focalizzarsi sul mantenere i propri privilegi all’interno dello Stato e nel trarre vantaggi da accordi relativi a megaprogetti e industria estrattiva. 

Nel gabinetto, il nuovo governo si vede obbligato a riunire gruppi diversi, per via della ripartizione dei seggi. Da un lato tecnocrati, impresari privati, vari membri fondatori del Movimiento Semilla, ma anche ex ministri e consulenti dei precedenti governi. Dall’altro lato ha un problema di rappresentatività: gli esponenti delle proteste, quali gli indigeni, i giovani, la comunità LGBTIQ non sono presenti o i loro interessi e voci non emergono. La maggioranza dei membri del gabinetto hanno conoscenze tecniche, ma poca esperienza politica. 

Inoltre gli Stati Uniti hanno già inviato chiari segnali includendo rappresentanti governativi nella lista di personaggi corrotti ed antidemocratici (Lista Engel), e minacciando sanzioni economiche. Gli Stati Uniti hanno revocato i visti ad oltre 100 dei 160 parlamentari. Grazie alla pressione internazionale, con l'appoggio di rappresentanti dell’Unione Europea e dell’Organizzazione degli Stati Americani, che seguirono passo passo tutto il processo elettorale, Arévalo potrà assumere l’incarico domenica prossima. 

Gli indicatori che, a prescindere, invierebbero segnali di cambiamento a breve termine sono la libertà di stampa e la libertà di espressione, i meccanismi di protezione per i difensori dei diritti umani e la lotta contro la corruzione. Ma ciò comporta anche il ritorno delle persone dall'esilio e la realizzazione dei diritti delle comunità indigene. (…) 

 

Sfide per la società civile e i popoli indigeni 

In mezzo a tutto questo, sta sorgendo uno spazio: dopo anni di esclusione e persecuzione, ora la società civile ha l'opportunità di consolidarsi, espandere la sua organizzazione ed implementare i diritti umani e civili. Sarà cruciale trovare l'equilibrio adeguato tra mantenere la propria autonomia rispetto al governo e cooperare con esso. 

L'insoddisfazione popolare verso governi autoritari e corrotti ha aumentato la coscienza politica, come pure la credenza che la partecipazione e l'esercizio del diritto a protestare abbiano effetti trasformatori concreti. Ora una delle sfide è continuare ad esercitare pressione per garantire che le istanze manifestate si realizzino e che gli interessi di tutti i gruppi sociali vengano rappresentati nel governo. La gestione da parte del governo di megaprogetti di infrastrutture che minacciano l'ecosistema e le comunità locali potrebbe costituire una prova del fuoco. 

Resumen Latinoamericano, 12 gennaio 2024

 

Traduzione a cura di Adelina B., Patria Grande/CIVG

 

Articolo originale: Guatemala. Un golpe frustrado

https://www.resumenlatinoamericano.org/2024/01/12/guatemala-un-golpe-frustrado/

 


 

 

MISION VERDAD (VENEZUELA) / INTERNI / VENEZUELA

Ciò che Maduro prospetta per il Venezuela nel 2024

Accordi, bilanci, progetti e sfide

 

Il recupero dei diritti storici sulla Guayana Esequiba venezuelana è uno dei cinque accordi

che il presidente Maduro ha prospettato per il 2024. Foto: X 

 

Il presidente Nicolás Maduro ha iniziato il 2024 presentando bilanci, prospettive e sfide del Venezuela, in ambito nazionale ed internazionale. In ciascun intervento realizzato finora ha sottolineato le difficoltà che ha attraversato la nazione e, nonostante queste, i progressi ottenuti. Così è stato nell'intervista con lo scrittore e giornalista Ignacio Ramonet, così nell’incontro con deputati e deputate del Blocco della Patria, che rappresenta i partiti del Grande Polo Patriottico nell'Assemblea Nazionale (AN). 

In queste ed altre occasioni il presidente ha posto in evidenza gli elementi che hanno provocato la crisi politica, nella quale il governo da lui guidato è riuscito a neutralizzare i vari tentativi di “cambio di regime” portati avanti da élite corporative multinazionali ed orchestrati da un settore dell'opposizione nazionale. 

Per spiegare l’attuale contesto ha specificato i vari fattori politici che ancora incidono sulla realtà economica e sociale del Paese. L'indipendenza politica della nazione è stata un aspetto trasversale nel suo discorso; nel suo intervento durante l'atto di notificazione all’esecutivo nazionale del nuovo periodo legislativo 2024-2025, così si è espresso: "Mai più, dico io, che mai più venga usato il potere politico in Venezuela, si tratti di Assemblea Nazionale, si tratti di Presidenza della Repubblica, per consegnare gli interessi nazionali in mani straniere, vili, codarde, imperialiste, mai più, mai più per calpestare i diritti costituzionali del popolo, mai più". 

 

Stabilità politica nazionale: un buon risultato

Il presidente Maduro ha posto in rilievo come si è riusciti a stabilizzare la dinamica politica venezuelana. Uno degli aspetti rilevanti è stata la strutturazione del funzionamento dell'AN in quanto potere pubblico dedito a promulgare leggi per migliorare le istituzioni nazionali. Ha paragonato l'operato dell'attuale parlamento, con 74 nuove leggi approvate, con quello del 2015, che riuscì ad approvarne solo una. 

Il Venezuela "è come un corpo sottoposto a prove estreme, che deve poi recuperare la muscolatura"; la stabilità politica è stata un risultato fondamentale per avviare la ripresa e la crescita integrale "dell'economia e di molti aspetti della vita sociale del nostro popolo".

Il parlamento nazionale, oltre ad altri risultati conseguiti nel 2023, ha eletto un nuovo Consiglio Nazionale Elettorale e convocato il referendum costituzionale per consultare la popolazione venezuelana su "i grandi temi storici" della Guayana Esequiba. 

Di fronte ai deputati dell'AN, il Presidente ha annunciato cinque accordi: 

1. difesa della pace e dell'unità nazionale. Non permettere discorsi di odio e intolleranza, che oltretutto sono reati. 

2. esigenza di annullare tutte le sanzioni contro la società e l'economia del Venezuela. Necessità di elezioni libere da sanzioni contro l'economia. 

3. perseveranza sulla strada della diversificazione economica, della ripresa e crescita economica, della costruzione di un nuovo modello economico, non dipendente dalla rendita petrolifera. 

4. recupero del benessere sociale colpito dalle sanzioni, il che implicherebbe il recupero integrale delle entrate dei lavoratori e lavoratrici della nazione. 

5. recupero dei diritti storici del Venezuela sulla Guayana Esequiba. 

Nell'intervista con Ramonet, Maduro ha dettagliato i fatti relativi al sequestro dell'impresario e diplomatico venezuelano Álex Saab, liberato il 20 dicembre scorso dalle autorità degli Stati Uniti, dopo aver subito violazioni ai suoi diritti dal giorno stesso della cattura a Capo Verde fino al successivo trasferimento nelle carceri statunitensi.

 

La liberazione di Álex Saab è considerata una vittoria politica del Venezuela

da parte di molti settori. Foto: Archivio

 

Ha sottolineato il ruolo di Saab nei vari meccanismi per aggirare le sanzioni imposte alla nazione: questo ha implicato iniziative per rifornire i Comitati Locali di Alimentazione e Produzione (CLAP) e per acquistare combustibili e medicine prioritarie. Il tutto nell’ambito del blocco dei conti e degli acquisti da parte della Banca Internazionale sotto minaccia di Washington. 

 

Dal macro al micro: pace e dialogo politico

La violenza criminale, associata sia all'impoverimento sociale sia ad agende politiche destabilizzatrici, è sotto controllo. Maduro si è riferito in tal senso alle azioni concrete portate avanti dalla “Gran Missione Quadranti di Pace” e ad operazioni come il “Gran Cacique Guaicaipuro”. Mediante l’intelligence di polizia e "colpi chirurgici" hanno disarticolato bande criminali e mafie carcerarie, con conseguente impatto sulla riduzione della criminalità.  "I Quadranti di Pace hanno contribuito a liberare i territori con maggior indice di criminalità e a stabilire le norme di funzionamento di comunità di pace; quadranti di pace, comunità di pace".

Se da un lato il dialogo politico ha fatto sì che settori dell'opposizione si sedessero a dialogare e si progredisse con agende politiche, dall’altro, tuttavia, questi gruppi "continuano a cospirare sottobanco, continuano sempre a cospirare di nascosto". 

Rispetto ai temi del dialogo ha posto l’accento sulla presunta riduzione delle sanzioni da parte degli Stati Uniti: "Ciò che han fatto gli Stati Uniti è concedere alcune licenze, come se il Venezuela fosse una colonia statunitense. Alcune licenze, come all’epoca della Compagnia Guipuzcoana, che aveva il controllo completo e concedeva licenze di esportazione o importazione".

Un altro punto relazionato con la pace è il modo di procedere della vicina Repubblica Cooperativa di Guyana e la sua subordinazione di fronte a Stati Uniti e Regno Unito. Il presidente ha segnalato le minacce di Londra, materializzate nella presenza di una nave da guerra britannica sul versante atlantico, in violazione dell'Accordo di Argyle, stabilito col presidente guyanese, Irfaan Alí. 

 

Crescita economica seppure in pieno assedio

Il Presidente ha illustrato dati sull’andamento dell'economia venezuelana, tra cui: 

. Dieci trimestri di crescita economica continua, iniziati nel 2021.

. Crescita del 12,99% dell'attività industriale petrolifera con investimento proprio. 

. Cinque trimestri consecutivi di crescita aggiuntiva del 5% nell'attività agricola. 

. Crescita del 4% nell'attività manifatturiera privata per 10 trimestri. 

. Crescita approssimativa del 4% dell'attività commerciale fino al terzo trimestre del 2023. 

. Produzione di alimenti e bibite cresciuta di oltre l’1,6%. 

. Recupero della capacità di pesca del 25% durante il 2023. 

. Acquacoltura cresciuta del 20%. 

. Raggiunta una stabilità di cambio e fermata l'iperinflazione. 

. Aumento del portafoglio di credito del 91% rispetto al 2022. 

. Rifornimento nel mercato interno del 97%, il più alto degli ultimi 24 o 25 anni, con produzione propria.

 

Ha ribadito che il Venezuela continua a non avere accesso ai conti all'estero: "Ci manca ancora molto, soprattutto per creare la ricchezza di cui abbiamo bisogno per incidere sui salari, sulle entrate delle famiglie". Ha evidenziato anche l'attività dei settori economici privati con importazioni complementari, regolata da "una politica molto chiara su ciò che s’importa e cosa no, e di protezione dei produttori nazionali".

 

  

L'esportazione di gamberetti dal Venezuela

è cresciuta del 98% nel corso del 2023. Foto: BBC

 

L'America Latina come blocco volto a “un universo di equilibrio"

Interrogato da Ramonet rispetto alla postura del Venezuela in ambito internazionale, Maduro ha affermato: "L'impero statunitense si trova in un processo di declino storico che è strutturale, definitivo". Ha paragonato il suo divenire alla perdita di potere imperiale da parte del Regno Unito, mentre a fronte di ciò “oggi è sorto un mondo di maggiore equilibrio, come lo sognava il Liberatore Simón Bolívar".  Analizzando il ruolo dell'America Latina in questa nuova configurazione globale, ha evocato Simón Bolívar, che parlava della necessità di costruire "un universo di equilibrio". Ha paragonato detta visione con la strategia di un mondo multipolare dove l'America Latina possa rappresentare uno dei grandi blocchi. 

In questo senso ha sottolineato la partecipazione del Venezuela alla ripresa dell'Unione delle Nazioni Sudamericane (Unasur), al consolidamento della Comunità di Stati Latinoamericani e Caraibici (Celac), e la sua presenza al Summit di Palenque, convocato dal presidente messicano Andrés López Obrador, per trattare temi quali cambiamento climatico, migrazione, sviluppo e indipendenza. 

Il presidente ha rimarcato come il Venezuela abbia rafforzato le relazioni con Paesi emergenti, quali la Turchia, l’India e la Russia, che sono fattori chiave nella nuova configurazione geopolitica globale. Ha fatto riferimento in particolare alla relazione strategica con la Cina, cresciuta ad un livello tale, da essere "a prova di bomba in ogni occasione". 

Ha manifestato il desiderio che, al prossimo vertice dei Brics in Russia, il Venezuela venga accolto come membro permanente della piattaforma. Similmente ha definito "una delle cose più ottuse e imbecilli" la decisione dell’appena eletto presidente dell'Argentina, Javier Milei, di rinunciare al fatto che il suo Paese divenga membro del gruppo di Paesi che rappresenta - parole di Maduro - "il futuro dell'umanità". 

Interpellato sulle guerre in Ucraina e Gaza, ha affermato che sono "guerre congiunte", fomentate dai grandi affari dell'apparato militare statunitense e dell'apparato militare israeliano. Ha aggiunto: “Il risvolto peggiore del genocidio è il silenzio complice al riguardo. Il silenzio complice delle élite europee. L'attività complice delle élite statunitensi, a fabbricare armi ed armi ed armi per bombardare e ammazzare palestinesi innocenti".

  

La relazione strategica fra Venezuela e Cina ha raggiunto un alto livello

"a prova di bomba e in ogni circostanza”. Foto: Dzen.ru

 

Per il 2024 il presidente Maduro progetta di lavorare per raggiungere la stabilità economica e il rispetto dell'indipendenza politica del Venezuela, mete attraverso cui ricercare e recuperare i frutti sociali che hanno caratterizzato la Rivoluzione Bolivariana. Riprendendo la sua influenza nella regione, il Venezuela punta a farla diventare un polo di peso geopolitico che garantisca la multipolarità, e un mezzo per far retrocedere la modalità imperiale di affrontare il mondo. 

Mision Verdád, 11 gennaio 2024

 

Traduzione a cusa di Adelina B., Patria Grande/CIVG

Articolo originale: Lo que plantea Maduro para Venezuela en 2024

https://misionverdad.com/venezuela/lo-que-plantea-maduro-para-venezuela-en-2024

 


 

 

GRANMA (CUBA) / ESTERI / FORUM DI DAVOS

Una «vetrina» per ricchi

 

In questi giorni la temperatura sulle Alpi Svizzere dove si svolge il Forum di Davos oscilla tra -2 e +3 gradi centigradi. Nel recinto si riuniscono fondamentalmente capi di Stato e imprenditori tra i più ricchi del pianeta, più altri che ancora credono in questo genere di riunioni, e uno in particolare ci è andato in cerca di uno spazio mediatico opportuno per rovinare la Russia e procurarsi armi e aiuti. C’è stato un mandatario che, in una salone quasi vuoto, tra le tante assurdità che ha detto ha assicurato che «il Forum è inquinato dall’agenda socialista», e che «il sistema capitalista è l’unico moralmente desiderabile» perche può eliminare la povertà.

Non sono fake. Il primo caso è del Presidente dell’Ucraina, andato a Davos per cercare più l’appoggio dall’Occidente che per affrontare la sua guerra contro la Russia, e il secondo è di Javier Milei, che ha messo da parte le proteste del popolo argentino dopo la sua nomina al potere per andare alla riunione. Milei ha anche criticato i governi di sinistra e il concetto di giustizia sociale che ha definito «ingiusto e violento».

Come c’era da aspettarsi, oltre ai brindisi a champagne e la degustazione di sofisticati piatti – ai quali accedono i più fortunati della terra, che sono contemporaneamente anche quelli che più ignorano la povertà degli altri – il Forum ha “informato” che «dal 2020 il patrimonio netto dei cinque uomini più ricchi del mondo (Elon Musk, CEO Tesla; Bernard Arnault, CEO LVMH; Jeff Bezos, fondatore di Amazon; Larry Ellison, co-fondatore di Oracle; Warren Buffett, CEO Berkshire Hathaway) ha raggiunto il 114%, raggiungendo una somma complessiva di 869 miliardi di dollari», come ha riportato la CNN. La stessa nota stampa ha aggiunto che, «allo stesso tempo, quasi 5 miliardi di persone in tutto il mondo sono diventate più povere».

Il Forum di Davos è stato fondato nel 1971 con l’obiettivo di ottenere la cooperazione tra pubblico e privato, secondo quanto scritto sul sito web del meeting. Risulta però che il mondo di allora non è quello di oggi, e la riunione è diventata una vetrina di un sistema capitalistico che avrebbe ben poco da esibire. Anche se in questi Forum si esprimono alcune buone intenzioni, i Paesi impoveriti ne hanno perso l’interesse e preferiscono altri consessi. Avviene con i Brics, un gruppo che cresce e si rafforza ogni giorno di più, nel quale cooperazione e solidarietà sono la guida.

Per questo, anche se lo slogan del Forum di Davos del 2024 è stato “Ricostruire la fiducia” (che evidentemente si è persa), sono solo più i ricchi che continuano a scommettere su questa iniziativa, mentre nel mondo povero è appena terminato un altro anno di sofferenze, di povertà, denutrizione

e differenze sociali, tutte aumentate.

Il Forum appena concluso, oltre al ricordo del gran freddo, della bellezza del paesaggio innevato delle Alpi e delle eccentricità di alcuni oratori – compresi i governanti – non smette di essere una vetrina del mondo occidentale, quello che dimentica i flagelli, le guerre, le sanzioni, l’egoismo, l’odio, la fame e la povertà.

Elson Concepción Pérez e GM per Granma Internacional, 19 gennaio 2024

 

 


 

GRANMA (CUBA) / LA GESTIONE DEL DISSENSO NELLE DEMOCRAZIE OCCIDENTALI

Il “pericolo rosso” e la caccia alle streghe: cose del passato?


Gli sposi Rosenberg, uccisi sulla sedia elettrica il 19 giugno del 1953,

furono vittime della spirale di persecuzione politica. Foto: Archivo Granma

 

Alla fine della Seconda guerra Mondiale, gli Stati Uniti avevano bisogno di avere un nemico e, per trovarlo, la cosa migliore era recuperare un antico «spaventa passeri»: il pericolo rosso, tanto utile per la costruzione del consenso attorno alla necessaria difesa del «sogno americano».

Gli alleati sovietici risultavano troppo scomodi: il prestigio ottenuto dall’URSS nella guerra, il suo ruolo da protagonista nella vittoria contro la Germania nazista e quello svolto dai partiti comunisti nella lotta antifascista, rappresentavano un serio pericolo per gli interessi del fiorente capitalismo statunitense dopo la guerra mondiale. Il  paese del nord entrò in una spirale di persecuzione politica, e una subdola paranoia anticomunista si estese in tutta la nazione.

In realtà, l’”ossessione” anticomunista negli Stati Uniti risaliva al 1917, quando trionfò la Rivoluzione Bolscevica, causa di grande timore nei settori più conservatori. Si trattava di un timore insensato, fomentato da politici ambiziosi e fanatici nemici del marxismo, finalizzato a proteggere “i valori nodamericani”. Questo permise al sistema di realizzare una coscienziosa purga di tutto quello che aveva una certa tendenza, non necessariamente, ma anche solo progressista.

Una delle più conosciute «purificazioni» iniziò nel 1947, quando guidati da una serie di nomi di presunti simpatizzanti comunisti pubblicata dalla rivista The Hollywood Reporter, i congressisti chiamarono i dieci citati dal giornale a dichiararsi.

Il caso famoso, noto come Caso dei Dieci di Hollywood, fu enormemente mediatico. Gli implicati, condannati a pene tra sei mesi e un anno di reclusione, soffrirono lo «stigma» andando a ingrossare la lista nera dei nemici della nazione, che significava perdere il lavoro, la persecuzione e l’ostracismo.

Attori, tecnici, produttori, artisti e promotori culturali, divennero dei sospetti per i cacciatori di comunisti. Opere d’arte come quelle di Georgia O’Keeffe o Adolph Gottlieb furono accusate d’essere anti-americane, e gli artisti d’avanguardia o i sospetti d’aver avuto vincoli con marxisti furono perseguitati e condannati.

Mentre l’isteria cresceva, il timore di possibili infiltrati nel Governo portò l’amministrazione ad accusare alti e prestigiosi funzionari come Alger Hiss, che aveva partecipato alla Conferenza di Yalta. Fu condannato a cinque anni di carcere per aver negato la sua appartenenza al Partito Comunista.

Divenne famoso un senatore che diede un nome a questa follia: Joseph McCarthy. Dopo il caso de Alger Hiss, McCarthy pronunciò un celebre discorso, affermando che il Dipartimento di Stato era infestato di “rossi” e mostrò una lista con 205 presunti infiltrati. Le azioni del politico repubblicano portarono il Senato alla creazione di un Comitato d’Investigazione della Lealtà dei dipendenti del Dipartimento di Stato, che accusò varie persone. In quell’atmosfera di persecuzione, le vittime innocenti furono parecchie e tra queste gli sposi Julius e Ethel Rosenberg.

Giudicati per spionaggio nel 1953, accusati d’aver consegnato il segreto del disegno della bomba atomica all’Unione Sovietica, i Rosenberg morirono sulla sedia elettrica il 19 giugno del 1953.

Dopo molti anni dalla fine del Maccartismo, la persecuzione dei comunisti e dei simpatizzanti continua ad essere una realtà nella società statunitense.

Non con la stessa sfacciata crudezza della «caccia alle streghe», ma con identica o maggiore efficienza, il sistema oggi ha perfezionato i meccanismi di repressione del dissenso e il «terrore rosso» continua ad essere un’arma efficace per mantenere il controllo della società.

Raúl Antonio Capote e GM per Granma Internacional, 27 dicembre 2023

 


 

GRANMA (CUBA) / ESTERI / IL CASO EPSTEIN

Il “libro nero” di Jeffrey Epstein o la decadenza morale ignuda

 


Jeffrey Epstein si è suicidato in strane circostanze

in una prigione federale di Nuova York. Foto Anadolu

 

Dopo diverse settimane di attesa, la giustizia di Nuova York ha declassificato alcuni documenti giudiziari relativi a Jeffrey Epstein, colpevole di molti delitti collegati al traffico di persone e all’abuso sessuale di minori.

Un po’ di storia: correva l’anno 2019, la campagna elettorale per le elezioni del 2020 prendeva forza, quando uno scandalo agitò l’establishment statunitense. I media locali informarono che l’FBI aveva arrestato il miliardario Jeffrey Epstein nell’aeroporto di Teterboro, in New Jersey.

Personalità del jet set dell’impero, funzionari pubblici e alti incarichi politici sembravano coinvolti – direttamente o indirettamente – nel delitto di tratta di persone, abusi sessuali di minorenni e  prostituzione. Jeffrey Epstein, amministratore di fondi di copertura a Wall Street, era già stato accusato per abusi sessuali di minori tra il  2001 e il 2005. A quell’epoca, si diceva che Epstein avesse abusato di una dozzina di ragazzine fra i 13 e 16 anni. L’indagine riaperta però sembrava indicare che fossero almeno un centinaio. Nel 2006, secondo i registri dell’FBI, il magnate cercava minorenni “particolarmente vulnerabili” per la loro condizione economica nei quartieri poveri di New York o arrivate dall’America Centrale e dai Caraibi, o persino dal Medio Oriente, per feste a sfondo sessuale nelle sue residenze di Manhattan, New Mexico e nei Caraibi.

I suoi legami con i potenti del sistema giudiziario statunitense gli evitarono le condanne e i contributi generosi di denaro fecero sì che nel 2008 la causa passasse dal livello federale a quello statale, così che scontò solo 13 mesi nell’ala privata del carcere Condal di Palm Beach, in Florida.

Un accordo segreto, ottenuto allora da Epstein, garantì l’immunità “a qualsiasi potenziale complice”, per far sì che nessuno dei suoi amici e alleati soffrisse conseguenze, e le vittime non potessero avere acceso ai documenti giudiziari. Ma riaperto il caso nel 2019 negli Stati Uniti, il cosiddetto “libro nero” di Jeffrey Epstein è diventato di nuovo un grande pericolo per molti, così nel perfetto stile delle pellicole gangster di successo, Epstein si è suicidato in circostanze molto strane in una prigione federale di New York dove si trovava in attesa del processo.

Il “libro nero” è un compendio minuzioso della rete dei minorenni del miliardario, che comprendeva personalità come Bill Clinton e Donald Trump, che una volta dichiarò: «Epstein è un tipo straordinario (…), è divertente andare con lui. Inoltre si dice che gli piacciono le belle donne tanto come a me, e molto giovani».

L’ordine della giudice Loretta Preska del tribunale federale per il Distretto sud di New York di rendere pubblici i documenti sigillati sul caso Epstein, ha messo in agitazione il vespaio perché si pensa che vi compaiano figure di primo piano. Il jet set rabbrividisce mentre i politici affilano le loro armi. Niente di meglio, nel bel mezzo di una campagna elettorale molto complessa e ricca di sgambetti e colpi bassi, per trovare argomenti per distruggere i rivali. Non importa se la morale appare coperta di stracci, intesi non come simbolo di povertà materiale, ma come metafora della povertà di principi dell’impero in decadenza.

Raúl Antonio Capote e GM per Granma Internacional, 5 gennaio 2024

 

 


 

 

GRANMA (CUBA) / ESTERI / LA PIAGA DEL NARCOTRAFFICO

Nuestra America: narcotraffico e politica indissolubilmente uniti?

 

Il tema del narcotraffico è sempre di attualità e, come di norma, si associa esclusivamente a temi di sicurezza e di impatto con la salute pubblica. Senza dubbio, esiste anche una stretta relazione con la politica e può quindi essere usato come strumento di esercizio di potere nella nostra regione.

Il narcotraffico e la sequela di crimini ad esso connessi – violenza e disgregazione sociale – costituiscono oggi una circostanza di cui approfittano i poteri effettivi e l’imperialismo yankee per mantenere il loro dominio politico nel sub-continente americano.

La percezione d’insicurezza indotta dal narcotraffico genera assuefazione sociale rispetto ai metodi autoritari e a società in diverse misure militarizzate che si legittimano in modo direttamente proporzionale alla gravità del clima di terrore.

Sotto il vessillo della guerra al flagello delle droghe, gli Stati Uniti dispiegano numerose risorse militari, basi permanenti, programmi d’assistenza e consulenti, nonché lo spietato Ufficio per il controllo delle droghe (DEA) in buona parte del territorio latinoamericano.

In realtà, il “nobile” interesse della potenza del nord di abbattere il narcotraffico è poco credibile perché, a rigore, i benefici che questo arreca alla plutocrazia sono notevoli, al di sopra della ovvia opacità dei numeri che lo dimostrano. È evidente la contraddizione tra il ruolo che gli Stati Uniti dicono di svolgere e, parallelamente, quella sorta di grande aspirazione che è il controllo del grande mercato del consumo di oppiacei nel mondo. Negli USA il mercato delle droghe costituisce la seconda industria per profitti, e viene prima perfino della vendita del petrolio. Il primo posto, già lo sappiamo, è stabilmente occupato dall’esportazione di armi, abitualmente in stretta relazione con il narcotraffico in modo da alimentarsi a vicenda.

Alle tecniche di fomentazione del narcotraffico si applicano le regole del sistema capitalistico, secondo cui se un settore o un’industria produce guadagni per i poteri dominanti, che sia la finanza o l’industria militare, inevitabilmente si abbatterà sulla vita e sul funzionamento della politica del paese. Se si sommano le risorse che negli ultimi quattro decenni sono state spese dalle autorità statunitensi per affrontare il narcotraffico, ci troveremo dinanzi alla più catastrofica incompetenza o, nel migliore dei casi, a una politica gattopardiana, che finge cioè di cambiare qualcosa per non cambiare mai nulla.

Per queste ragioni, alcuni esperti qualificano la famosa DEA come il più grande cartello del mondo con licenza di inganno. Recentemente, poi, si profila una realtà nuova che è l’evoluzione drammatica della crisi del fentanillo negli Stati Uniti, arrivata a sostituire altre droghe come la cocaina d’origine latinoamericana e che elimina in teoria la giustificazione della presenza militare nella regione, ma nonostante questo, per il momento la guerra alla crescita del consumo del fentanillo non ha sortito effetti.

L’amministrazione Biden assume spesso posizioni surrealiste, come la proposta dei settori repubblicani che, visto l’eventuale coinvolgimento dei cartelli messicani nella distribuzione della nuova droga parlano palesemente di un intervento militare in Messico.

 

Il narcotraffico si espande a partire dai governi conservatori

Al di là dei comportamenti generali, si può dire globalizzati, il crimine organizzato ha un impatto particolare in diversi paesi latino americani. Curiosamente, la sua espansione coincide con i regimi guidati dalla destra.

Ci si può riferire a vari esempi: prendiamo a caso l’Ecuador, a partire dall’avvento di Lenín Moreno ad oggi. Cos’è avvenuto? Da quasi zero, l’incidenza del narcotraffico sull’insicurezza cittadina si è moltiplicata, com’è provato dalla violenza gratuita esplosa nell’ultimo processo elettorale, con il malcelato obiettivo di ostacolare il ritorno al governo del cosiddetto correismo.

Da quasi zero, dicevamo, il paese è diventato una rotta obbligata verso il nord e ha generato le condizioni per riciclare tra 500 e mille milioni di dollari l’anno derivanti dal commercio illegale, sotto lo sguardo indifferente o la debole risposta delle autorità ecuadoriane.

Lo scandalo associato a Bernardo Manzano, ex ministro d’Agricoltura del Governo del presidente Guillermo Lasso, ha solo esposto all’opinione pubblica la straordinaria rete dei loschi affari strettamente associati al traffico degli oppiacei. L’Ecuador oggi è una via alternativa a quella tradizionale del Messico, anche se con un pieno coinvolgimento dei tristemente celebri cartelli della droga di quest’ultimo e delle mafie d’origine europea: non è un caso che l’Albania abbia finanziato la campagna elettorale dell’ex presidente Lasso.

Alla stessa stregua, si può apprezzare il caso del Perù, probabilmente il principale esportatore di foglie di coca dell’emisfero latino americano, la cui industria ha avuto un formidabile rinforzo politico nel fujimorismo, praticamente con il Governo della terribile coppia Fujimori-Montesinos dagli anni ’90 del secolo scorso. Tempo addietro fu trovato nel 2013 un deposito di droghe in un magazzino di proprietà di Keiko Fujimori, la principale erede politica del despota, la quale nelle ultime elezioni è stata la principale rivale del “defenestrato” presidente Pedro Castillo.

Sono poche le cose che si possono collegare al Centroamerica che non risultino un’ovvietà. Basta vedere la sorte occorsa al precedente mandatario dell’Honduras Juan Orlando Hernández, con un processo pendente nelle corti statunitensi con l'acccusa di essere a capo di una mafia locale dedita al  narcotraffico, utilizzando il paese come una specie di portaerei per il passaggio di migliaia di voli con tonnellate di cocaina. In Honduras la politica si è mescolata molto con questo problema non solo per il coinvolgimento di figure importanti della destra locale, ma perchè è servita paradossalmente per giustificare l’onnipresenza nel paese del Comando Sud degli Stati Uniti che controlla la base di Palmerola, la più grande che l’esercito imperiale possiede fuori dal territorio nordamericano in America.

La crescita del traffico degli oppiacei sembra inarrestabile e capace di trascinare qualsiasi sistema politico a sud del Rio Bravo. Per cancellare ogni dubbio, nelle ultime settimane ha acquisito notorietà il disgraziato apporto del governo di Luis Lacalle Pou, in Uruguay, che per chi non conosce la destra corrotta di quel paese sembrava un territorio estraneo al problema. Dopo l’inattesa rinuncia del cancelliere Francisco Bustillo, il presidente uruguaiano si è visto obbligato a riorganizzare il suo gabinetto includendo il titolare degli interni. Sono lontani i tempi in cui il presidente Lacalle mostrava una presunta superiorità politica nel segno della democrazia, mettendo in mostra scene di condanna contro altri governi, come quello cubano.

L’esistenza del fenomeno del narcotraffico in paesi come il Messico o il Brasile, ora governati da forze progressiste e di sinistra, non nega il concetto qui esposto sul vincolo destra-narcotraffico, non solo perché lo ereditano, ma perché affrontano la sfida di fronteggiare la dicotomia tra soluzioni altamente militarizzate di destra e politiche sociali logicamente di più lenta maturazione, che lasciano senza appoggio popolare o mano libera  alle strutture criminali.

Alcune delle accuse di presunta cooperazione con i narcos fatte ai governi di sinistra, si inscrivono abitualmente in operazioni di propaganda proprie della guerra a bassa intensità al fine di screditarli e per giustificare ogni tipo d’aggressione fabbricato a Washington.

In ogni caso, il ragionamento porta a considerare che, probabilmente, l’unica possibilità per far uscire i paesi latinoamericani da questo incubo è con i governi e con progetti di sinistra nei quali prevalgano le politiche di giustizia sociale.

Francisco Delgado Rodríguez e GM per Granma Internacional, 15 gennaio 2024

 

 


 

 

SPECIALE ECUADOR

A cura di Patrizia B., Patria Grande/CIVG

 

SINPERMISO / ESTERI / LA GUERRA CONTRO LE DROGHE IN ECUADOR

L’Ecuador è vittima della guerra contro le droghe

 


Il mondo ha bisogno che la produzione e la vendita delle droghe

vengano legalizzate in maniera graduale


La settimana scorsa l’Ecuador è stato scosso da una violenta ondata di violenza con assassinii, sequestri di poliziotti e anche un’invasione di uno studio televisivo da parte di una banda che ha trasmesso un messaggio alla popolazione. E’ stato un esempio particolarmente cruento della forza del crimine organizzato, un problema di estrema gravità non solo per l’Ecuador, ma di enorme importanza anche per il Brasile.

Il crimine organizzato che ha preso il controllo in Ecuador esiste per smerciare droghe che non possono essere commercializzate legalmente. Tuttavia gli effetti negativi del narcotraffico vanno ben oltre la vendita dei prodotti proibiti.
Gli episodi di violenza della settimana scorsa sono solo la punta dell’iceberg. Il crimine organizzato si infiltra nelle istituzioni, formando partner nelle forze di polizia, nei tribunali e nella politica. In casi estremi, prende il controllo della struttura di potere che dovrebbe imporre le leggi.
Con questa struttura ed il denaro ottenuto con il commercio delle droghe, è più facile l’espansione delle attività verso altri crimini, come il furto di telefoni cellulari utilizzati poi per trasferire denaro dai conti delle vittime del furto verso le organizzazioni criminali.
Alla base di questa gerarchia troviamo i giovani reclutati per lavorare con violenza, consegnando droga, rubando cellulari e imponendo la legge parallela dell’organizzazione.
La discussione sull’Ecuador si è focalizzata su ciò che il paese può fare per fare fronte alle organizzazioni di narcotrafficanti. Tuttavia, è cruciale ricordare che la radice del problema è la proibizione della vendita della droghe come la cocaina in tutto il mondo, specie nei paesi sviluppati.
Se la produzione e la vendita di prodotti come la cocaina fossero legali, le imprese del settore non userebbero armi né violenza. Farebbero ciò che fanno le imprese del tabacco e della birra: inviare comunicazioni per posta elettronica ai giornalisti “spiegando” che il tabacco è meraviglioso, investire in annunci pubblicitari televisivi con molta allegria e figure femminili, senza nominare la sbornia o il cancro al fegato, e costituire lobby per evitare restrizioni alle proprie attività, per esempio.
Confrontati con i mali del crimine organizzato, questi problemi sono insignificanti. Oggi, spendiamo risorse pubbliche per combattere il crimine organizzato. Senza la proibizione, i nostri apparati di sicurezza e giustizia non dovrebbero preoccuparsene e potremmo anche riscuotere le tasse di queste attività, così come facciamo per l’alcol e le sigarette.
Senza la proibizione, sarebbe nostra responsabilità confrontare i costi ed i benefici per decidere in merito al consumo di queste sostanze. La proibizione esiste perché abbiamo la tendenza di dare più valore ai benefici presenti e meno peso ai costi futuri. Così, nel libero mercato, il consumo di droghe sarebbe eccessivo.
Qui, in generale, inizia la discussione su ciò che dovrebbe fare lo Stato, fino a che punto ha senso che la legge definisca ciò che i cittadini possano o meno consumare.
Tuttavia, il punto è che lo Stato non può evitare la vendita degli stupefacenti, e tanto meno può evitare che i telefoni cellulari siano rubati negli stessi posti tutti i i giorni o che le moto e le auto ignorino i semafori rossi nelle città. Lo Stato può solo trasferire il commercio delle droghe al crimine organizzato, lasciando che la produzione e il consumo siano un po' più difficili.
Il costo del divieto è molto alto. Il mondo ha bisogno che la produzione e la vendita delle droghe vengano legalizzate in maniera graduale, trasferendo queste attività economiche a imprese che operano senza armi, sono soggette a regolamentazione, pagano le tasse ed hanno bisogno di molta meno corruzione per esistere ed essere redditizie.
di
Bernardo Guimarães, 24 Gennaio 2024

Bernardo Guimarães è docente di Economia a Yale, è stato professore nella London School of Economics ed è  professore titolare nella Sao Paulo School of Economics - FGV

Traduzione a cura di Patrizia B., Patria Grande, CIVG


Articolo originale: Ecuador es víctima de la guerra contra las drogas
https://sinpermiso.info/textos/ecuador-es-victima-de-la-guerra-contra-las-drogas

 


 

 

CONTEXTOLATINOAMERICANO / ATTUALITA’ / ECUADOR

La violenza straripa

 

 

 

Quando nel 2016 il governo colombiano firmò gli accordi di pace con la parte più potente ed antica della guerriglia FARC (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane), tracciando inoltre il percorso per raggiungere un altro accordo con gli altri gruppi armati, sembrava che i conflitti armati interni stessero per essere cancellati dalla geografia latinoamericana. Tuttavia, il 2024 è iniziato con fatti che offuscano gli scenari di pacificazione di una regione che cerca stabilità politica e sicurezza per i cittadini per affrontare le sue enormi sfide economiche e sociali.
A una Colombia che cerca di disabituarsi alla guerra, si aggiunge ora una nazione vicina che è diventata il nuovo epicentro dei cartelli della droga, con ondate di violenza e panico popolare. L’Ecuador ha appena dichiarato di trovarsi nel pieno di un “conflitto armato interno” e il governo ha decretato lo stato di emergenza di fronte al dilagare della criminalità iniziato nel sistema penitenziario, riuscendo poi a superarne le mura per terrorizzare la gente.

Il fatto è che l’Ecuador da tempo arretra su aspetti che aveva superato. Un paese relativamente sicuro che è passato ad una situazione di violenza diffusa. Pochi sono capaci di riconoscere le origini di una evoluzione così veloce di questa violenta esplosione. In principio sembrava trattarsi di una questione di semplice delinquenza, ma in realtà, poi, le mafie sono state incoraggiate dallo smantellamento dello Stato e delle sue istituzioni, che hanno lasciato soli interi gruppi sociali, corrodendo le deboli strutture esistenti ed i suoi funzionari per controllare i fili del potere. Il controllo del territorio da parte delle organizzazioni criminali va di pari passo con l’abbandono da parte dello Stato.

Tuttavia, se devono essere cercati dei capri espiatori, sono di nuovo la sinistra Ecuadoriana e la sua più alta figura, l’ex presidente Rafael Correa, i destinatari delle accuse di avere relazioni con i narcotrafficanti, di patteggiare con le mafie, così come di avere espulso dal paese la base militare  antidroga degli Stati Uniti da Manta nel 2009. Se ci atteniamo a questi argomenti, la Colombia dovrebbe essere il posto più pacifico di tutto l’emisfero dal momento che, nel suo territorio si contano nove basi militari. Tuttavia, se si confrontano gli indici di violenza nello stesso paese durante gli anni del pugno di ferro e quindi con quelli successivi all’inizio dei concreti accordi di pace, i numeri lasciano interdetto chi pensa che patteggiare o negoziare sia un errore.
Non è possibile che negli ultimi cinque anni le prigioni Ecuadoriane siano diventate campi di battaglia senza la connivenza dell’autorità carceraria e dell’apparato giudiziario. Le rivolte, gli assassini e le fughe sono diventati tristemente quotidiani e quindi l’alibi perfetto per decretare stati d’assedio che non sono serviti a placare la violenza, dal momento che erano opportunamente utilizzati per promuo
vere agende politiche attraverso l’autoritarismo.
La metamorfosi della tranquillità degli Ecuadoriani iniziò con la presidenza di Lenin Moreno che, concentrato a fare piazza pulita dell’eredità del suo feticcio antagonista, generò le condizioni di degrado sociale e impunità necessarie per convertire una società in giungla. Moreno fu seguito da Guillermo Lasso che prese nota della ricetta di (in)governabilità. Inimicarsi il resto dei poteri, fare in modo di imporsi a colpi di decreti per aggirare i frequenti scandali, gli lasciarono poco tempo per concentrarsi sulle crepe che si aprivano sotto i suoi piedi e fratturavano il tessuto sociale fino ad un punto pericolosamente irreversibile.
Tuttavia, mentre il numero dei morti cresceva dentro e fuori le carceri, sia tra i detenuti che tra le forze di polizia o tra la gente comune, e mentre le rapine, i furti e i rapimenti diventavano quotidiani, la élite politica era ancora alle prese con sterili battaglie che, in prossimità della fine del mandato, miravano ad avviare un processo elettorale anticipato per risolvere la crisi. Solo che, nel bel mezzo della campagna, la violenza dei criminali e nelle strade arrivò a condizionare il processo elettorale, e la vicenda di un assassinio a bruciapelo ai danni di un candidato presidenziale diventò il modus operandi per estorcere decisioni.
Fu così che l’insicurezza diventò tema chiave e, in dirittura d’arrivo, chi mostrava il polso duro e prometteva la pace avrebbe molto probabilmente conquistato il trionfo. Esattamente ciò che ha fatto Daniel Noboa che, tra gli argomenti che usò come amo, promise proprio di fare qualcosa di simile al modello bukelista di guerra contro le bande e di riduzione drastica della criminalità.
Fu così che Noboa si impose rispetto all’altra alternativa: quella che prometteva qualcosa di già noto che apparteneva a un periodo da tutti riconosciuto di splendore, ma con un racconto senza soggetto e senza menzionare che era opera del correismo.
Così è arrivato il bel giovane vigoroso e desideroso di conquistare il mondo con una storia personale fatta di sogni ad occhi aperti e priva di richiami al passato, svincolata anche dal proprio padre che tante volte aveva aspirato a diventare presidente, e molti sono caduti vittime della seduzione, senza leggere ciò che prometteva, senza soffermarsi su ciò che non diceva chiaramente e che come candidato aveva deliberatamente omesso, ovvero il suo piano economico che non si discostava dal copione degli imprenditori che dirigono un paese come se fosse la propria azienda.
E per finire, prima la storia del tirannicidio e poi quella dell’assassinio del tiranno assassino, ha impoverito l’intero clima elettorale e seminato il dubbio: “chi se non il correismo potrebbe essere colpevole di assassinare un avversario politico?”.
Così arriviamo al giorno d’oggi, all’annuncio di mega carceri come magica soluzione alla violenza, come se il clima di guerra non fosse nato proprio in luoghi sulla carta definiti di massima sicurezza. E torniamo all’importanza del detto tra le righe, assieme alle misure repressive: l’intenzione di aumentare la tassazione di beni e servizi per raccogliere fondi per frenare le violenze. La gente torna ad essere carne da cannone, alla mercé dei vari poteri.
Mentre si prendono le necessarie ed urgenti misure per gli episodi di terrore, si devono anche soppesare azioni mirate alla causa di questo picco di violenze. Droghe, corruzione, assenza di meccanismi di sicurezza efficaci e uno stato debole e non sempre presente in tutte le aree geografiche sono terreno fertile per il “si salvi chi può”. Sarebbe necessario rileggere un autore che conosce molto bene questi problemi perché li ha vissuti in prima persona e da entrambi i lati del campo, da combattente armato contro lo Stato e come massimo rappresentante dello Stato stesso: Gustavo Petro.
Cinque mesi fa, Petro fece un’analisi su come il mercato delle droghe ha modificato la sua relazione con i sistemi economico e politico: “Dalla marijuana del capitalismo del benessere e dei suoi giovani ribelli, siamo passati alla cocaina, la droga della competitività e del neoliberismo; e adesso siamo arrivati alla droga della morte, il fentanyl: la droga del capitalismo, della crisi climatica e della guerra”. Ciò ha fatto si che cambiassero le rotte del narcotraffico e che i centri operativi venissero trasferiti. Ancora una volta si constata quindi il fallimento della guerra contro le droghe con l’approccio statunitense.
Anisley Torres Santesteban, 15 Gennaio 2024

Traduzione a cura di Patrizia B., Patria Grande, CIVG

Articolo originale: Se desborda la violencia en Ecuador
https://www.contextolatinoamericano.com/site/article/se-desborda-la-violencia-en-ecuador

 

 

SINPERMISO / ANALISI / DOSSIER ECUADOR

 

 

Ecuador: cosa c’è dietro e le risposte femministe

La guerra del neoliberismo autoritario contro i più deboli

Alleanze femministe contro la militarizzazione della società
Lo scorso 9 gennaio, in Ecuador si è scatenata una situazione inaudita: la dichiarazione dello stato di “conflitto armato interno” da parte de nuovo presidente, l’imprenditore miliardario del settore bananiero Daniel Noboa. La dichiarazione viene emanata in un contesto di numerosi attacchi dentro e fuori dalle carceri (sequestro di personale carcerario, auto incendiate, ecc.) da parte di gruppi criminali legati al narcotraffico. L’escalation è culminata nello stesso giorno con l’irruzione di giovani armati nella sede del canale TC della televisione Guayaquil che hanno preso alcune persone in ostaggio e terrorizzato giornalisti e personale dell’emittente davanti agli occhi attoniti degli spettatori nazionali e internazionali. Poco prima era stata resa nota la fuga dal carcere di Fito, capo della banda dei “Choneros”, oltre ad altri boss. Di tutte queste fughe sembra che il governo non ne fosse a conoscenza. Il paese era entrato in guerra.
Tuttavia, sarebbe assurdo pensare si tratti di una nuova situazione. Diversi elementi erano in gestazione da tempo. Tra questi, la trasformazione del sistema penale e carcerario da una situazione di progressismo fino a quella attuale di progressivo controllo da parte delle bande; l’articolazione tra dollarizzazione, riciclaggio e attività lecite e illecite (come la produzione bananiera per la esportazione, l’attività mineraria, ecc.); le modifiche nel modello di profitto e l’insorgere di nuove attività e delle fonti di finanziamento non espressamente vietate; l’impatto del conflitto armato e la “guerra contro le droghe” in Colombia e il suo impatto transfrontaliero razzista in territori come Esmeraldas, e quindi la relazione tra Stato, forze dell’ordine, apparato giudiziale e l’economia criminale. Questi sono solo alcuni degli ingredienti di un processo costante che situa l’Ecuador nella mappa regionale e mondiale di una economia che oggi innesca uno stato di guerra. Una guerra che noi intendiamo come forma di governo della società e contro la società. I massacri all’interno delle prigioni, che hanno causato circa 500 persone assassinate tra il 2018 ed il 2023, sono il risultato della frammentazione e dello scontro tra bande per il controllo del territorio. Si tratta della faccia più perversa di questa guerra, il cui modello di “soluzione” trova la sua risposta più esemplificativa ne El Salvador di Bukele.
Ora, tornando a martedì 9, ciò cui abbiamo assistito durante quella giornata e in quelle seguenti è stata l’inoculazione di uno stato di terrore in tutta la popolazione; uno stato chiaramente indotto dalle autorità e dai mezzi di comunicazione. Dopo la ripresa dell’irruzione nel canale TV ci troviamo di fronte alla produzione deliberata ed amplificata di allarme sociale. Folle in fuga verso le proprie case, collasso dei trasporti per ore in varie città, immediata sospensione delle lezioni scolastiche ed evacuazione urgente degli studenti, ecc.. Lo stato di allarme si ridirige, da ora in poi, quale una guerra contro il denominato terrorismo delle bande del narcotraffico. I media alimentano senza tregua un atteggiamento di profondo spirito di avversione contro nemici onnipresenti ovunque e più e più volte ricondotti a maschi vittime di razzismo (racializados) che le autorità da anni identificano con il nemico. Il campo è stato quindi chiaramente delineato: lo Stato contro le mafie, gli Ecuadoriani “bene” contro i delinquenti scuri e poveri appena maggiorenni. Il contrasto tra gli agenti armati dello Stato e questi giovani poco addestrati non lascia dubbi sul suo esito.
L’attuale ridefinizione della situazione fornisce alcuni nuovi elementi: ora le bande criminali, il cui ultimo anello visibile sono questi giovani, si trasformano in “terroristi”. Ci viene quindi detto che siamo in guerra non contro bande criminali ma contro organizzazioni che vogliono prendere il controllo del paese con le armi. Ed è questa lettura, nonostante la sua ampia diffusione, che vogliamo mettere in discussione, esattamente come stanno facendo in molti, nonostante non compaiano nei notiziari di questi giorni, tra questi vi sono persone private della libertà ed i loro familiari.
Si sta discutendo, per esempio, se questa dichiarazione, un passo in più rispetto ai numerosi e standardizzati stati di emergenza che il paese sta subendo, sia o meno corretta. Dipinge uno scenario militarizzato che amplia l’impunità dell’esercito e della polizia, che come sappiamo colpisce non solo la lista dei “terroristi” di cui alla dichiarazione, situati negli ultimi gradini della economia criminale, ma può anche essere applicata al di fuori di qualsiasi controllo democratico. Per molti giuristi, questa ridefinizione dello scenario risulta assurda, ma qui si tratta di opportunità politica nel dare sostegno alle forze dell’ordine dello Stato, a carico delle quali, solo qualche settimana fa, ricadevano gravi accuse di implicazione nelle reti criminali nelle quali erano anche coinvolti politici e funzionari del sistema giudiziario (la “Operazione Metastasi” è l’ultimo di una serie di casi). Come abbiamo visto, in pochi giorni sono state legittimate la cooperazione militare con Israele e gli Stati Uniti ed altre forme di ingerenza (ed affari) che sembravano appartenere al passato e si collegano con una dinamica di lungo periodo nella regione con esponenti molto importanti come Colombia e Messico. Coloro che erano sospettati e implicati in trame delittuose dallo Stato diventano, attraverso questa trasformazione bellica della scena, salvatori ed esempio morale di fermezza e mano ferma per la popolazione impaurita.
Inoltre, lo stato di guerra attuale, come si sta sviluppando, ha forti implicazioni sociali. Nel paese si discute ora a proposito di questi criminali divenuti terroristi e sull’azione dello Stato depurata e riorganizzata attorno al nuovo consenso al suo ruolo repressivo. La sospensione dei diritti  elementari come la protezione fisica, giuridica di riunione ecc., era stata già introdotta nei precedenti stati di emergenza, l’eccezione nel tempo è diventata la regola, ma oggi questa norma dà carta bianca a innumerevoli abusi teletrasmessi. Tra questi la vera e propria tortura di persone private della libertà, disumanizzate e individuate come nemiche. Ad oggi i prigionieri, fatto  di cui neppure si parla, stanno denunciando pubblicamente la situazione di fame e tortura cui vengono sottoposti in nome della sicurezza, mentre nei quartieri popolari e nelle città in generale i sospettati sono neri, hanno cappucci e tatuaggi e vanno dove non dovrebbero. Il sospetto rilancia un clima di guerra civile che è il prosieguo della gestione di natura bellica dei conflitti nella quotidianità. Indubbiamente questa nuova forma di governo e autoritarismo armato, per non parlare del fascismo, non è esclusivo dell’Ecuador ma si va via via insediando in diverse parti del mondo quale attacco deliberato alla democrazia.
E’ necessario,
dato lo scenario, spiegare che la guerra, in realtà, non è quella che ci raccontano, ma quella che si conduce in un altro terreno contro altre fazioni. Le immagini dei giovani criminali che impugnano esplosivi e armi in maniera disorganizzata mettono in scena oggi quella che il collettivo “Mujeres de Frente” (https://mujeresdefrente.org/) chiama una “guerra contro gli umili”, una guerra contro il mercato della droga, il riciclaggio o il sicariato, con i quali le élite politiche operano fanno patti e affari senza problemi, e con i quali confluiscono istituzionalmente (come si spiegherebbe altrimenti la loro capacità di mobilità e operatività sul territorio?) e svolgono transazioni legali o non espressamente proibite nella produzione, le attività minerarie, i trasporti o dei porti nei quali circolano i container di banane e altre merci. La guerra si conduce contro gli umili, contro coloro nei confronti dei quali si esegue un castigo costante ed esemplare ed allo stesso tempo li si utilizza come manodopera. E’ su di loro che si sperimentano e si impongono modalità di disciplina sociale che erodono i vincoli di cooperazione che potrebbero impedire l’abuso o la spoliazione comandata dall’attuale modello di profitto legale-criminale. Il razzismo contro la popolazione impoverita, il suo sacrificio per mano dello Stato in guerra, lungi dall’interrompere il reclutamento di questa forza lavoro monouso, consente di gettare fumo sulle vere strutture della economia mafiosa e sulle condizioni di subordinazione sociale di cui quest’ultima ha bisogno.
Ciò che chiamano guerra dello Stato contro le mafie, deve essere rinominato quindi in guerra razzista, guerra contro il popolo, e guerra preventiva contro coloro che si ribellano, contro coloro che denunciano le condizioni di morte, contro coloro che le subiscono in prima linea, guerra che attraverso gli uni diventa guerra contro tutti. Spaventata, rinchiusa ed alla mercé di operazioni  brutali e di corpi neri usa e getta, la popolazione è pronta per i nuovi progetti che rilanciano il profitto delle élite ed aggravano la crisi. Mentre dalle case, molta gente contempla costernata le immagini in loop di Fito, la presa del canale, le operazioni
di polizia e militaricontro nemici onnipresenti e le facce dei giovani detenuti, essi si consolidano e rilanciano disegni di legge e proposte come la riforma tributaria che esonera le grandi fortune (in specie quella del gruppo Noboa), la costituzione di zone franche ed il precariato nel mercato del lavoro, il controllo dell’improvviso aumento dell’IVA, il TLC (N.d.t.: Trattati di Libero Commercio) con la Cina e la trasformazione del paese in area di stoccaggio rifiuti, proposte di privatizzazione, accordi di cooperazione con potenze militari, e molto di più. La guerra, come ha già detto il presidente con toni gioviali, costa denaro e questo denaro deve arrivare da qualche parte. La guerra, oltre ad essere uno strumento di governo, apre prospettive di affari per le élite che oggi occupano lo Stato ed i suoi interstizi.
Come femministe, attrici sociali che vedono come il punitivismo statale colpisca i figli e le figlie del popolo, come donne coscienti del modo in cui questo clima di guerra sociale sovrasta e umilia le famiglie di coloro che occupano gli ultimi gradini della redditizia economia legale e pseudo legale, come attrici che lottano per la riproduzione sociale giusta, femministe che si oppongono al razzismo che spezza i legami sociali, come attiviste che capiscono la relazione tra guerra e violenza di genere, non possiamo restare in silenzio. Siamo in guerra, l’America Latina è in guerra, in El Salvador, Argentina, Brasile, Perù, Messico, Guatemala … ma non come ci dicono il governo o il neoliberalismo autoritario, invece come arma di annichilimento e sottomissione della vita comune, come strumento di frattura e normalizzazione del sacrificio umano e naturale a beneficio di coloro che oggi occupano il potere e organizzano l’accumulazione con tutti i mezzi possibili.
Né a Gaza, né in Ecuador, né in America Latina. No alla guerra!

Firma e diffondi il manifesto contro la guerra in Ecuador, América Latina e nel mondo
https://laboratoria.red/publicacion/la-guerra-del-neoliberalismo-autorit...

La Laboratoria - nodo Ecuador
Gruppo di ricerca e studio attivista femminista presente in cinque città (Buenos Aires, Quito, New York, Porto Alegre e Madrid).


Tatiana Romero: “Si criminalizzano e si incarcerano le persone degli strati popolari perché è la logica della guerra in Ecuador”

 

Mujeres de Frente, nasce nel 2004 da un gruppo di donne detenute ed altre esterne, sostiene e accompagna nell’attuale contesto che vive il paese il quale “per decenni è stato organizzato sotto l’egida del Governo nordamericano”.

Mujeres de Frente, è “una comunità di cooperazione e cura tra donne, diverse, diseguali, indigene, meticce, afro-discendenti, cholas e sessualmente diverse, così anche come una comunità di riflessione e azione politica” con le loro parole. Una comunità di donne diverse le cui azioni si estendono anche all’interno delle mura delle prigioni, dove fanno rete per sostenere le donne incarcerate. E’ costituita da circa 60 donne con le loro figlie ed i loro figli e sono organizzate in modo assembleare. Gestiscono uno spazio di incontro nel centro di Quito chiamato Casa delle Donne, dove sono attive due iniziative collettive, uno spazio adibito a nido ed una grande aula per la Scuola di Formazione Politica Femminista e Popolare, il che ci dice molto della relazione con l’interno della prigione femminile Regionale Cotopaxi, di Latacunga.
Abbiamo visto negli ultimi giorni le immagini di una violenza scatenata in Ecuador e con sorpresa e orrore ci siamo portati le mani alla testa. Tuttavia, questa violenza non è nuova in Ecuador. E’ parte di una strategia di guerra che abbiamo già visto in altri paesi dell’America Latina, come Colombia e Messico, e dove lo Stato dichiara guerra a un nemico diffuso ma incarnato nel “narcotraffico”; è ciò che chiamiamo “guerra contro le droghe”, che altro non è, con le parole di Mujeres de Frente, “una strategia razzista e patriarcale a beneficio del capitale”. “Il risultato della guerra contro le droghe, come abbiamo già visto in Messico e Colombia, è la costruzione di una situazione di guerra che mette le popolazioni oggetto di razzismo e più povere sotto il fuoco incrociato”, da conversazioni online. “Tutte le politiche sulla droga furono create da maschi cisgenere bianchi” come ha detto in una intervista su Pikara Magazine la antropologa brasiliana Luana Malheiro.
In questo contesto di guerra, il presidente Daniel Noboa, il 9 di gennaio ha decretato il “conflitto armato interno” complementare allo “stato di emergenza”, per un periodo di 60 giorni che prevede la totale libertà di azione delle Forze Armate, la sospensione del diritto di libertà di riunione e del diritto alla inviolabilità del domicilio, e coprifuoco giornaliero tra le ore 23 e le 5. Intanto, le Mujeres de Frente fanno quello che fanno ormai da due decenni: sostenere e accompagnare.
La giornalista ecuadoriana Soraya Constante ci racconta ne El Salto che le detenzioni e le incarcerazioni dei narcotrafficanti che operavano nella costa e che sembravano sporadiche hanno molto a che vedere con la situazione in cui versa oggi il paese. “L’Ecuador è territorio dei narcotrafficanti nonostante non li abbiamo visti arrivare ed ora il controllo delle prigioni è perduto. Per questo preoccupa che la guerra dichiarata contro le droghe sia piuttosto contro gli anelli più deboli della catena”, scrive la reporter. Le Mujeres de Frente citano inoltre la riforma penitenziaria del 2014 quale punto di flessione che ha comportato “un processo di disumanizzazione delle persone incarcerate. E ci raccontano che la riforma di dieci anni fa “ha reso possibili i massacri nelle carceri”.

“Il risultato della guerra contro le droghe, come abbiamo già visto in Messico e in Colombia, è la costruzione di una situazione di guerra che situa le popolazioni vittima di razzismo e quelle più povere sotto il fuoco incrociato”

Secondo Mujeres de Frente cosa sta succedendo ora in Ecuador?
L’opinione di Mujeres de Frente, come organizzazione popolare, femminista, antirazzista, composta da donne attualmente detenute, ex detenute, familiari di persone in prigione, commercianti ambulanti autonome, lavoratrici a cottimo a domicilio, lavoratrici del sesso, studenti, professoresse, dalla diversità, dal basso, pensiamo che ciò che stiamo vivendo in questi giorni in Ecuador è una intensificazione della strategia del Governo che da decenni organizza sotto l’egida del Governo statunitense, si tratta di quella che viene definita guerra contro le droghe: l’idea di un nemico diffuso, dedito agli affari illegali della droga e affini, che appare come un nemico di origine popolare e diffuso, nei quartieri, nei paesi, nascosto tra le persone più povere e vittime di razzismo del paese.
Questa guerra implica la militarizzazione come risposta statale, che alla fine diventa una risposta bellica contro quartieri, paesi e strati popolari. Il risultato della guerra contro le droghe, come abbiamo già visto in Messico e Colombia, è la costruzione di una situazione di guerra che mette le popolazioni vittime di razzismo e più povere sotto il fuoco incrociato. Stiamo vivendo una intensificazione di questa strategia, e l’effetto evidentemente non è la pace, e neppure la riduzione degli affari del narcotraffico e affini, ma invece la organizzazione dei territori in guerra nei quali la confusione distrugge il tessuto sociale ed organizzativo, incrementando il razzismo e generando inoltre forme di paramilitarizzazione in un paese dove il porto d’armi è libero. Questa strategia è a diretto beneficio del capitale, che viene accumulato per vie legali e illegali.
E’ innegabile che alcuni funzionari di Stato, militari, agenti di polizia e civili siano direttamente coinvolti nelle cosiddette strutture del crimine organizzato ed è chiaro che alcuni membri delle Forze Armate appartengono anche gruppi del crimine organizzato. Si tratta di una strategia patriarcale, la guerra è patriarcale; l’idea di violenza sui corpi, la crudeltà contro le persone dentro e fuori dalle prigioni è il linguaggio del patriarcato, secondo il quale le forme di dialogo, auto-organizzazione, di pace e di vincolo sociale sono ingenue e pertanto non sono funzionali per la disciplina sociale e razzista. Si tratta di una guerra che criminalizza in maniera generalizzata e mette in stato d’assedio le popolazioni di origine indigena, montubia e in specie africana.

“E’ innegabile che alcuni funzionari di Stato, militari, agenti di polizia e civili siano direttamente coinvolti nelle cosiddette strutture del crimine organizzato”

Cosa implica nella quotidianità ciò che sta succedendo?
Questa guerra ci sta obbligando, non solo a cercare altre alternative di sopravvivenza, alternative di lavoro, ed implica anche che stanno costringendo le persone degli strati popolari a delinquere, perché se a noi, che lavoriamo nelle strade, che guadagniamo il pane per i nostri familiari, non ci viene permesso di lavorare, e non ci vengono date alternative per la sussistenza e invece ci si criminalizza e ci si incarcera, senza che abbiamo commesso alcun reato ma semplicemente perché è la logica della guerra, è chiaro che così non possiamo sopravvivere. Pochi giorni fa è stato approvato il decreto 111, che dà carta bianca al Governo per accusare di terrorismo qualsiasi persona che sia “sospettata”, e così la polizia ha dichiarato che in 24 ore ha, in maniera “super-efficiente”, catturato 200 persone accusate di terrorismo. In realtà, ciò che succede è che si incarcerano persone degli strati popolari e li si accusa di terrorismo. Ciò terrorizza la popolazione e consente di approvare una serie di misure neo liberali, securitarie, che in altro modo avrebbero incontrato l’opposizione popolare. E’ in fermento da anni, dal 2007 con (l’allora presidente Rafael Correa), e oggi si sta materializzando, perché non abbiamo mai vissuto questo stato di panico generalizzato nel quale festeggiamo il fatto che le Forze Armate ci stanno “proteggendo”.

“E’ una guerra che criminalizza in maniera generalizzata e situa in stato d’assedio le popolazioni di origine indigena, montubia e in specie africana”

Mujeres de Frente nasce nel 2004 nel carcere El Inca, tra donne dentro e fuori dal carcere. Nel 2008, ci fu un indulto diretto a persone condannate o la cui sentenza era in fase di emissione per micro-traffico di droghe, così molte delle donne appartenenti all’organizzazione che stavano in carcere poterono uscire iniziando così a costruire, finalmente da fuori, ciò che oggi è Mujeres de Frente. Sono una comunità di appoggio e cooperazione, ci sono donne universitarie e anche donne in possesso di sapere situato, ci sono lavoratrici irregolari, venditrici ambulanti, dipendenti, operaie. Con la riforma carceraria del 2014, le carceri vengono trasferite dalle città alle regioni, generando tassi elevatissimi di affollamento. Questa lontananza ha comportato un ostacolo per le organizzazioni che lavorano nelle carceri.

Come mai voi citate spesso la riforma penitenziaria del 2014 come punto di svolta?
Prima della costruzione dei mega-carceri, noi potevamo visitare le persone incarcerate, portar loro del cibo, abbracciarli, toccarli, portar in visita i bimbi; ciò generava in loro una sensazione di sostegno e protezione, dal momento che potevano ricevere le visite della famiglia, non di una sola persona come accade oggi, ma di tutta la famiglia al completo. Entravamo con la pena e il dolore di avere una persona incarcerata, ma la nostra presenza era un incoraggiamento ed attenuava un poco tutte le violenze che essi subivano dentro alla prigione. La riforma penitenziaria ci ha tolto tutto questo, ora possiamo entrare in carcere non più di due alla volta, abbiamo solo due ore di visita ed i bimbi possono entrare solo in occasioni speciali. Questo è stato un processo di disumanizzazione delle persone incarcerate. A nostro parere è questa riforma che ha reso possibili i massacri nelle carceri. Questo sistema è molto più violento rispetto a quello precedente; nonostante sia il Governo a farsi carico materialmente di queste mega-prigioni industriali, le detenute ed i detenuti hanno  bisogno di altri fondi per poter vivere la dentro. Dopo la riforma e sopratutto a partire dal 2019, il numero di detenuti ha cominciato a crescere, i processi sono diventati rapidissimi per poter incarcerare sempre più persone ed inoltre da quel momento in poi le forze di polizia hanno cominciato a gestire le carceri al posto del Ministero della Giustizia e dei Diritti Umani; quindi ciò che prima era di competenza di una istituzione che almeno nel nome indicava rispetto per i diritti umani passava ora alla gestione di un’Amministrazione che deve dimostrare il proprio lavoro, e lo fa con il numero delle persone incarcerate.

Cosa comporta per le donne,  svolgere attività di sostegno, sia dentro che fuori dal carcere, verso le persone incarcerate?
Il carcere comporta molti aspetti difficili tanto per chi lo vive in prima persona quanto per noi che sosteniamo i processi di incarcerazione. E’ un posto orribile, dove si passa il tempo a sopravvivere; ogni volta che vi entri, quando avvicini il tuo corpo alla polizia per le perquisizioni, ti toglie la dignità. Il carcere come spazio fisico ti allontana dalla gente perché i tragitti che percorriamo fino alla prigione sono spesso di due ore per l’andata e altrettante per il ritorno. E’ una contraddizione perché se da un lato è una stigmatizzazione dall’altro è uno spazio nel quale è stato possibile costruire molto. Guardare come le compagne dentro continuano a frequentare la Scuola [di Formazione Politica Femminista e Popolare] perché li trovano un bel luogo dove sentirsi supportate e ciò che costruiscono dà loro speranza. C’è molta creatività politica dentro alle carceri. La prigione come istituzione è fatta per disumanizzarci, ma per noi è importante sottolineare che anche in queste condizioni si può costruire qualcosa, anche la dentro.

“Le donne e le armi sono la moneta di scambio tra funzionari e reti mafiose di carcerati con armi e potere”

Le donne incarcerate subiscono l’abbandono familiare?
Le donne sono coloro che sostengono la vita e quando sono loro ad essere incarcerate non c’è nessuno che sostenga loro. Quando le relazioni familiari si interrompono, le donne che stanno dentro senza una rete che le aiuti e nessuno che possa sostenerle economicamente sono costrette a fare di tutto per sopravvivere: traffico di droga, prostituzione, oltre a molte altre cose. La prostituzione è in qualche modo istituzionalizzata dentro il carcere, dal momento che è il sistema penitenziario che in maniera informale negozia con esse dentro alle prigioni; le donne e le armi sono la moneta di scambio tra i funzionari e  le reti mafiose di carcerati con armi e potere.

Qual’é il ruolo che svolge Mujeres de Frente nella vita delle donne detenute?
Sostenerle. Cerchiamo di essere un appoggio emozionale ed economico per quanto possibile, facendo ricorso alla raccolta fondi. Cerchiamo di creare le condizioni materiali per le compagne, in modo che, al momento di uscire di prigione, abbiano la possibilità reale di avere risorse per sopravvivere. E’ importante che le donne al momento di uscire dal carcere sentano di avere uno spazio affettivo sicuro che le appoggi, che possano venire quando preferiscono, senza essere giudicate ne criminalizzate. Noi vogliamo far loro capire che possono integrarsi di nuovo nella società, che abbiamo dolori in comune, ma che esse vengono da un posto pieno di violenza e che noi vogliamo essere un luogo di sostegno. Lo stesso vogliamo essere per le persone LGBTQ+ che non possono uscire allo scoperto, o che non abbiano un luogo sicuro dove poter essere se stesse. Abbiamo iniziative produttive collettive dove i mezzi di produzione sono in comune. Si tratta di progetti pensati perché ognuno di essi sia gestito da 10 compagne. Abbiamo anche un laboratorio di cucito che funziona allo stesso modo, in futuro vorremmo riuscire a vendere abiti a basso prezzo alle compagne dell’organizzazione. Stiamo inoltre pensando di costruire una biblioteca collegata con la Scuola di Formazione Politica Femminista e Popolare. Pensiamo di continuo a nuovi progetti da portare avanti e bisogna sottolineare che è lo sforzo militante quello che fa sì, in contesti di carenza di risorse, che la organizzazione stia in piedi.
In Mujeres de Frente, ci dicono, tutte accompagnano e sono accompagnate: “Capiamo che ci sono momenti critici nella vita di molte donne e per noi l’importante è essere uno spazio sicuro. Anche o meglio, sopratutto, in questo contesto di guerra”.

https://www.pikaramagazine.com/2024/01/se-criminaliza-y-encarcela-a-las-…

Tatiana Romero è una storica messicana che si dedica allo studio della repressione corporale delle donne nelle dittature

 

Piano Ecuador o un “narcocorrido” con molti “capi”

[Ndt: narco-corrido o ballata sulla droga]

di Lisbeth Moya González

 

Qual è l’odore della violenza? Che aspetto ha? Che suono ha? In mezzo al panico vissuto in questi giorni a Quito mi sono fatta queste domande. Ero sola in casa e mia madre insisteva perché prendessi al più presto un volo per Cuba. Poi vidi i primi arresti di coloro che lo Stato chiama “terroristi”: erano giovani vittime di razzismo e poveri. Ho visto un militare mentre esortava la sua truppa incitandola a sacrificarsiper la patria mentre il presidente li autorizzava ad ammazzarli tutti. Mi sembrava di sentire degli spari ma si trattava di fuochi d’artificio e qualcuno mi ha raccontato di un prigioniero che saliva sul bus e puzzava di spazzatura.

 

Il 7 di gennaio le autorità ecuadoriane “non potevano affermare, ne negare” che Adolfo Macías, alias Fito, il capo della banda del crimine organizzato Los Choneros era evaso dal carcere. Fito scontava, dal 2011, una condanna a 34 ani per crimine organizzato, narcotraffico e omicidio, nel carcere regionale di Guayaquil. Poco dopo, l’ex ministro ecuadoriano degli interni, José Serrano, dirà alla stampa che la fuga risaliva al 25 dicembre, fatto del quale lo Stato non aveva dato nessuna dichiarazione ufficiale.
L’8 di gennaio, un giorno dopo che la fuga Fito era stata resa pubblica, è scoppiata una guerra tra il crimine organizzato e lo Stato, durante la quale diversi gruppi hanno preso possesso delle carceri sequestrando agenti penitenziari. L’attenzione mediatica è salita alle stelle quando hanno cominciato ad essere diffusi video e notizie di attentati, auto bomba, sparatorie, presa d’assalto di un canale Tv a Guayaquil e assassinii di agenti di polizia in diretta, che minacciavano la sicurezza pubblica.
Gli ammutinamenti ed i massacri in carcere sono comuni da tempo in Ecuador. La violenza nelle città della costa ha generato frequenti stati di emergenza durante il governo di Guillermo Lasso, ma stavolta la violenza è arrivata alla capitale acquisendo un carattere mediatico inarrestabile causando il panico generalizzato. In seguito, i media e le autorità hanno smentito una serie di notizie false che erano circolate durante quelle giornate caotiche.
La fuga dalle prigioni in Ecuador non è un fatto raro. Il Servizio Nazionale di Assistenza Integrale alle Persone Adulte Private della Libertà e agli Adolescenti Trasgressori (SNAI: Servicio Nacional de Atención Integral a Personas Adultas Privadas de la Libertad y a Adolescentes Infractores ) è stato oggetto di scandali ricorrenti, non solo per la disumanità nella quale vivono le persone private della libertà (PPL: personas privadas de libertad), ma anche perché questo organismo occulta informazioni sulla situazione delle carceri ed è stato caratterizzato da episodi di corruzione amministrativa. La recente fuga di Fito e altri componenti di bande criminali come Colón Picó in Ecuador, non sono le uniche avvenute nell’ombra in questi ultimi anni.
Nell’Ottobre del 2023 veniva pubblicato il video “Corrido del léon” dedicato ad Adolfo Macías, nel quale viene soprannominato “il papà”, “il padrone”, “un uomo di buon carattere”, “un buon amico pieno di umiltà”. Il narco-corrido era contenuto in un video, nel quale parte delle scene erano state filmate all’interno del carcere. Fito, come altri leader delle bande criminali, aveva privilegi in prigione, perché di fatto, le carceri in Ecuador sono di dominio dei narcos.
L’intellettuale messicano Oswaldo Zavala, nella sua analisi della la narco-narrativa sul messicano Joaquín “El Chapo” Guzmán spiega che in giudizio era stato dimostrato che non si trattava del “capo dei capi”, e neppure della testa del cartello di Sinaloa, come era stato dipinto nei narco-corridos e nella stampa, ma uno dei tanti nella catena di comando del crimine organizzato. Per questo autore, la narrativa dei cartelli che competono per il potere e delle figure egemoniche dentro di essi, come potrebbe essere l’alias Fito nel caso ecuadoriano, giustificano di fronte alla società messicana la militarizzazione e addossano ai narcos la colpa di tutta la violenza di un paese dove anche militari e corpi repressivi detenevano il monopolio di questa violenza.
Lo stesso Zavala asserisce che il campo discorsivo dei narcos è retto da un punto nodale più grande: la sicurezza nazionale, un discorso che ha bisogno di nemici per stare in piedi. Secondo l’autore le istituzioni politiche del Messico e USA operano in questo caso in maniera congiunta come generatori di nemici simbolici.


Crimine organizzato in Ecuador

Gráfica: Observatorio Ecuatoriano de Crimen Organizado

 

Quanto sostenuto prima non significa che i narcos siano un invenzione dei governi o uno stratagemma in scala internazionale per assicurare il dominio degli USA in Latinoamerica, nonostante detta ipotesi non sia da escludere, sopratutto considerando il contesto attuale. Nel 2022 l’Ecuador era il decimo paese più violento della regione e già nel 2023 occupava il primo posto con 7200 morti violente: 45 omicidi ogni centomila abitanti.

 

 


Mercati principali in relazione con il crimine organizzato in Ecuador

Gráfica: Observatorio Ecuatoriano de Crimen Organizado

 

Si tratta di un paese dove il narcotraffico è la più grande espressione del crimine organizzato, ma che è anche recettore del traffico di idrocarburi e armi, riciclaggio di beni, corruzione e guerra tra bande criminali. Con la bassa presenza dello Stato e la neo-liberalizzazione dell’economia, sono state le province costiere le più grandi recettrici della violenza e sempre più il paese andino si apre alla penetrazione militare ed economica degli Stati Uniti.

I boss non hanno tatuaggi
La prima reazione del presidente Daniel Noboa al conflitto è stata quella di decretare 60 giorni di stato di emergenza nazionale ed il coprifuoco dalle 23 alle 5 del mattino in questo periodo. In seguito ha emesso il Decreto Esecutivo 111, dove ha dichiarato che il paese si trovava nel mezzo di un conflitto armato interno identificando come obiettivo da eliminare a cura delle forze dell’ordine, i gruppi: «Águilas, ÁguilasKillers, Ak47, Caballeros Oscuros, ChoneKillers, Choneros, Covicheros, Cuartel de las Feas, Cubanos, Fatales, Gánster, Kater Piler, Lagartos, Latin Kings, Lobos, Los p.27, Los Tiburones, Mafia 18, Mafia Trébol, Patrones, R7, Tiguerones». Oltre a ciò, il Decreto li identifica come organizzazioni terroriste e attori belligeranti non statali. Immediatamente la Assemblea Nazionale ha annunciato l’offerta di amnistia a poliziotti e militari che avrebbero fatto uso della forza durante il conflitto armato interno appena dichiarato.
“Nelle carceri tatuano i ragazzi che capitano in un padiglione dominato dalle mafie in modo che non parlino al momento di uscire, mentre i grandi boss non hanno alcun tatuaggio. Questi tatuaggi ed il colore della pelle o l’aspetto sono oggi gli standard utili ai corpi repressivi per identificare coloro che sono stati individuati come terroristi. La gente è assetata di sangue e violenza, dal momento che pensa che così migliorerà la situazione e lo Stato sta agendo per questo”, afferma una fonte che, per ragioni di sicurezza, chiameremo Carlos.
Questi giovani di quartiere reclutati dalle bande non sono quelli che spostano tonnellate di droga “Perché gli affari dei narcos funzionino serve un tessuto internazionale con paradisi fiscali ecc., sono strutture di livello più elevato che non si impegnano in conflitti violenti, ma che stanno dentro gli Stati”, spiega.
Carlos insiste nella necessità di differenziare le grandi mafie dalle bande locali e gli alti comandi dai soldati semplici. “Le mafie non si preoccupano della vita dei propri ragazzi – dice -. Coloro che hanno assaltato la TV a Guayaquil hanno ricevuto in cambio piccole somme di denaro, e lo stesso è stato per i giovani che sfruttano per le loro azioni. Sono solo carne da cannone”.
Secondo il censimento penitenziario in Ecuador, nel 2022 il 40,4% delle persone private di libertà hanno tra i 18 ed i 29 anni ed il 93,4% sono uomini. Solo il 7,3% degli uomini ha un istruzione superiore. Inoltre, la maggior parte delle persone private di libertà scontano sentenze per traffico illecito di sostanze, seguiti in parti uguali dai reati di rapina e omicidio.
Carlos afferma che lo Stato è responsabile del fatto che quei giovani si uniscano alle mafie, dal momento che non hanno alternative di vita in un sistema dove la disuguaglianza è la legge. Inoltre, spiega che la risposta di Noboa nello scagliarsi solamente contro i giovani che hanno preso parte agli atti violenti dell’8 e del 9 è un errore, la lotta principale dovrebbe essere indirizzata contro gli artefici.
Chi beneficia del “conflitto armato interno”
Il 6 di ottobre del 2023 lo Stato ecuadoriano ha firmato l’accordo “relativo allo Statuto delle Forze” con gli USA, che permette a militari e appaltatori nordamericani di soggiornare temporaneamente sul territorio ecuadoriano “in occasione di visite di navi, formazione, esercitazioni, attività umanitarie quali risposte a disastri naturali e provocati dall’uomo, attività di cooperazione per affrontare sfide condivise in materia di sicurezza, compreso il traffico illecito, il terrorismo internazionale e la pesca illegale non dichiarata e non regolamentata e altre attività  stabilite di comune accordo”.
Secondo il difensore dei diritti umani ecuadoriano, Fernando Bastian, la Corte Costituzionale ha dato il via libera all’accordo lo scorso giovedì, ma la decisione non è stata ancora resa pubblica. La maggior parte dei giudici non hanno considerato che gli accordi riguardanti l’intervento degli USA nel conflitto richiedono il pronunciamento dell’Assemblea Nazionale. In rappresentanza degli USA, nel paese andino arriveranno, la comandante del Comando meridionale, Laura Richarson, alti funzionari antidroga e diplomatici, per elaborare un piano congiunto di contrasto alla crisi.
Diversi studiosi hanno spiegato che ciò che sta succedendo in Ecuador non può essere definito come conflitto armato interno, dal momento che in materia di diritto internazionale non si può affermare che si tratti di una guerra tra lo Stato ed un comando unico del crimine organizzato. Media e studiosi del diritto internazionale concordano sul fatto che non si può attribuire alle bande la funzione di attori belligeranti dal momento che le loro motivazioni valgono per la delinquenza comune e non per quelle definite dalla legge internazionale.
La dichiarazione di conflitto armato interno protegge le bande e consente loro di beneficiare di un’amnistia, per esempio, perché presume una parità tra lo Stato e l’altra parte “belligerante”, dal momento che secondo il diritto internazionale hanno obblighi simili.
Nel discorso mediatico dello Stato e in specie nel Decreto 111, Noboa chiama queste bande “attori belligeranti non statali” e “organizzazioni terroriste”. Lo stato sviluppa un Piano di ricompense volto ad incentivare da parte dei cittadini la denuncia, in forma anonima, verso i responsabili dei disordini. La campagna informativa del piano, inoltre definisce i membri delle bande come terroristi.
Il terrorismo non è contemplato nella Costituzione ecuadoriana, si tratta di una legge precedente recepita nell’articolo 366 del Codice Organico Integrale Penale (COIP), dove si stabilisce che il delitto di terrorismo si configura quando una persona e o una associazione armata “provochi o mantenga in stato di terrore la popolazione o un settore di essa, con atti che mettano in pericolo la vita, la integrità fisica o la libertà delle persone”.
Sull’uso del reato di terrorismo, il presidente Daniel Noboa, davanti alla TV nazionale ha affermato che: “Non erano stati definiti, avrebbero voluto essere denominati come gruppi di delinquenza organizzata cosicché fosse più facile” eludere il peso della legge “e adesso sono obiettivi militari”.
In questo senso, l’uso della figura di terrorismo in questo contesto ha più a che vedere con il discorso statunitense sulla rivolta colombiana, definita narco-ribellione. In proposito, il ricercatore Daniel Kersffeld riferisce che la dichiarazione di “conflitto armato interno” rimanda alla crisi dello scontro in Colombia tra “forze militari, guerriglia e organizzazioni legate al narcotraffico”.
Ed infine, la dichiarazione di conflitto armato interno apre anche le porte all’intervento USA in Ecuador, secondo quanto previsto in “Strategia degli Stati Uniti per Prevenire Conflitti e Promuovere Stabilità”, datato aprile 2022 che spiega che questo paese interverrà nel caso in cui sia compromessa la stabilità di un paese o regione a causa di un conflitto armato o di altra instabilità”. Inoltre, il governo di Guillermo Lasso aveva già aperto le porte alla presenza economica e militare americana in Ecuador con una serie di accordi bilaterali.
“Se gli USA o Noboa avessero voluto controllare la situazione avrebbero seguito le tracce dei soldi o avrebbero controllato i porti – opina Carlos -. Dall’Ecuador partono le barche e gli aeroplani che solcano il Pacifico. Esistono radar con tecnologia per intercettare gli aerei, per controllare tutto ciò che parte dai porti, ma invece no, lo Stato preferisce incarcerare più giovani, in modo che escano di prigione come veri e propri membri della criminalità organizzata”.

Chi minaccia lo Stato?
Carlos afferma che , nonostante la fuga di alias Fito sembri il detonatore della situazione attuale non è così. “Los Choneros non sono coloro che stanno combattendo qui. Stavolta sono stati Los Lobos ad attaccare lo Stato”.
Los Choneros controllano il Guasmo, Manabí, la zona portuale dell’Ecuador. L’esplosione attuale è il tentativo dei Los Lobos di controllare la sierra ecuadoriana, da Quito fino a Loja, e questa logica di attacchi terroristi cerca di generare tensione politica, ci spiega Carlos. A tutta questa serie di eventi si sono aggiunte altre bande, approfittando del momento, ma queste non erano coinvolte totalmente negli attacchi di questi giorni. “Con la fuga dell’alias Fito i Los Choneros non hanno niente a che fare. Non è difficile notare che i posti dove c’è stata la tensione maggiore sono territori dei Los Lobos”, aggiunge Carlos.
Non si può capire la guerra tra bande del crimine organizzato e lo Stato, in Ecuador, senza fare riferimento ai processi di pacificazione delle bande iniziati nel 2004 e che ebbero il culmine nel 2010. Carlos dice che il presidente Rafael Correa nel 2010 prese parte ad una riunione riservata alla quale parteciparono rappresentanti delle bande: Ñetas, Masters e Latin Kings.
In quel momento, erano in atto iniziative di pacificazione che partivano dalle stesse bande. Carlos ci invita a fare un distinguo tra bande e cartelli legati al narcotraffico in Ecuador e ritiene che attorno al 2011 e 2012 la pacificazione abbia dato dei frutti, ed anche nel 2015 i gruppi erano parzialmente smobilitati, ad eccezione di alcuni membri dei Latin King e dei  Ñetas che furono assorbiti da altre bande e sono parte del conflitto attuale. Più tardi, il processo di pacificazione è stato abbandonato dal governo di Correa, dal momento che non erano scaturite opzioni economiche reali per coloro che erano legati alle bande.
“Correa ha cercato di pacificare le bande e gli si addebita il narcotraffico attuale, ma non è così. In quel momento operava il cartello Sinaloa che aveva le sue logiche, ma non c’era guerra fra bande. La colpa di Correa è la mancanza di lungimiranza per continuare ad investire nei processi di pacificazione. Lenin Moreno ha azzerato i fondi e non ha risolto il problema. Sono entrambi colpevoli di non aver operato adeguatamente”, afferma il mio intervistato.

I Cartelli che sono a capo del conflitto attuale sono diversi dalle bande. Los Choneros, una delle bande più antiche del paese, che esiste dagli anni 90, era legata al cartello Sinaloa. I suoi principali leader sono stati incarcerati durante il governo di Correa iniziando ad operare dall’interno delle prigioni. In quel momento comincia a incubarsi la guerra odierna: “quando Los Choneros usano le bande come forza d’urto”.
La mia fonte riferisce che l’assassinio di Leandro Norero ebbe delle effettive conseguenze nella guerra tra bande, ma non ne fu il fattore centrale, dal momento che si trattava di rancori già presenti. Norero era detenuto nel carcere di Latacunga, controllata dai Los Lobos. Le chat del caso Metástasis mettono luce sulle alleanze che cercò di realizzare, ma i Los Lobos non vollero patteggiare. “Di sicuro Los Lobos restarono senza alleati con la morte di Norero, perché anche se non si può affermare che furono gli autori del crimine, erano senza dubbio loro a controllare la prigione dove era recluso, successe questo tra le bande.
Nel 2022, l’anno in cui fu assassinato Norero, diversi capi delle bande sono estromessi dalla scena, tra questi la mano destra di Rasquiña, Junior Roldán, alias JR. Nel 2023, l’anno in cui l’Ecuador diventa il paese più violento della regione, cominciano a vedersi esposizioni di cadaveri appesi ai ponti come dimostrazione di potere, esattamente come già era successo in Messico. Ci furono anche vari ammutinamenti nelle carceri e nella prigione di Guayas, vengono assassinati sei dei sospettati di attentato ai danni del candidato presidenziale Fernando Villavicencio. La risposta del governo di Guillermo Lasso fu di continuare con la sua politica di stati di emergenza.
Nel 2018, Los Choneros ed in particolare l’allora capo Jorge Luis Zambrano, alias Rasquiña, hanno creato,nel carcere di Guayas, Los Tigerones, Los Lobos, Los Chone Killers e altri gruppi, ma questo fatto non ha avuto rilevanza mediatica. Dalla parte del cartello Jalisco c’erano Los Lagartos, che erano legati strettamente, ma dopo la morte di Rasquiña, il potere viene assunto da alias Fito e quindi succede che Los Tigerones, Los Lobos y los Chone Killers, si mettono d’accordo dando luogo ai peggiori massacri carcerari. In questo contesto, Los Choneros creano nuovi gruppi come Los Águilas y Los Fatales. Dopo la morte di Norero tornano ad unirsi con Los Choneros alcune bande come i Chone Killers e successivamente Los Tiguerones. Si incrementa così il loro potere per una guerra tra narcos che utilizza centinaia di migliaia di giovani.
“Prima del 2018 i narcos organizzavano i loro conflitti mentre la loro presenza e le risorse nel paese erano in continua crescita. Approfittando delle politiche di austerità nello Stato, iniziarono gli attacchi con gruppi di forze d’assalto organizzati in precedenza. Ecco come è iniziata questa guerra sanguinosa che ora affronta lo Stato. Queste battaglie di potere tra i gruppi sono quelle che hanno portato a far si che il trauma che vive oggi l’Ecuador sia il risultato, tra gli altri fattori, della lotta dei Los Lobos – in questo momento isolati dagli altri – per il dominio di nuovi territori e, quindi, dei loro alleati, il Cartello Jalisco, per assicurare il proprio dominio in Ecuador”, spiega Carlos.
La testata indipendente specializzata nel crimine organizzato in Latinoamerica, Insight Crime, sostiene che l’incremento della violenza in Ecuador è una questione di “bande frammentate in guerra per i grandi flussi di cocaina”. Tre anni fa è iniziata questa guerra tra bande, che si acutizzò, tra gli altri motivi, a causa dell’assassinio del narcotrafficante Leandro Norero, legato al caso della corruzione economica e amministrativa del caso Metástasis, nel quale sono coinvolti “giudici, pubblici ministeri e funzionari del Consiglio della Magistratura e della SNAI (Servizio Nazionale di Attenzione Integrale a Persone Adulte Private della Libertà ed a Adolescenti Autori di Reato)”.
Nel mezzo di questo scenario di violenza, la proposta dello Stato è quella di opporsi alle bande con il pugno di ferro. Il termine “uso del monopolio legittimo della violenza statale” risuona nuovamente nei discorsi dei funzionari e dei mezzi di comunicazione.

Il monopolio, legittimo? della violenza
Lo studioso cubano Jorge Luis Acanda, che risiede a Quito, riflette in merito all’uso della violenza da parte degli Stati. In proposito spiega che il concetto di violenza legittima, nel caso dello Stato, stabilisce che solo questo può far uso e sfruttare i benefici  della violenza fisica, ma è necessario analizzare i fatti nella situazione concreta.
“Ci sono due forme di intendere la violenza: come fenomeno fisico o strutturale. Se intendiamo la violenza come fisica, si deve tenere conto del fatto che lo Stato Ecuadoriano nella sua storia repubblicana non la ha mai monopolizzata.
C’è un articolo del New York Times, nel quale si accusa Alvaro Noboa, l’uomo più ricco dell’Ecuador nonché padre dell’attuale presidente, di ingaggiare squadroni della morte per assassinare nelle sue piantagioni qualsiasi operaio agricolo che parli di scioperi o sindacati. Questa situazione non riguarda solo Noboa. L’utilizzo della violenza fisica da parte di agenti privati per difendere lo status quo o i rapporti di produzione esistenti è molto diffuso in Ecuador e in America Latina.
Infine, dire che il monopolio della violenza è nelle mani dello Stato in Ecuador è un errore. La violenza è anche nella mani delle élite e questo è diventato normale. Lo Stato ecuadoriano non aspira realmente a tenere il monopolio legittimo della violenza”.
Acanda sottolinea che dove ci sono relazioni capitaliste di produzione, lo Stato è garante della violenza strutturale. Riprodurre questa violenza per fare in modo che in primo luogo esista la povertà e quindi che questa aumenti, è una delle funzioni dello Stato capitalista e questo attraverso le leggi, vuoti di potere, e anche, con la legittimazione simbolica di queste disuguaglianze.
“E’ impossibile una società senza una strutturazione del potere. La discussione consiste nell’interrogativo se sia legittimo o no questo potere per i meccanismi che usa per tenersi in piedi, dal momento che ciò che lo rende legittimo è la sua finalità ed il tipo di razionalità su cui è basato. Se la razionalità che regge l’esistenza e le azioni di questo potere, dei suoi obiettivi e finalità, è una razionalità che coincide e che è espressione della razionalità dell’essere umano, ovviamente da posizioni di sinistra rivoluzionaria questa razionalità è legittima. Se la razionalità di questo potere è messa in funzione della riproduzione del capitale, allora quel potere sarà, per la sinistra rivoluzionaria, illegittimo”.
Il docente in filosofia aggiunge che, in qualsiasi società, lo Stato deve fare uso della violenza per evitare il caos. Il problema è che cosa si intende per caos. Nella migliore società possibile, lo Stato usa la violenza, e conserva il monopolio della violenza in funzione della produzione e riproduzione di un tipo di razionalità che coincide, è espressione e veicolo della razionalità dell’essere umano.
Nelle società pre-moderne la violenza era esercitata a livello individuale basandosi su codici morali. In questa tappa lo Stato non aveva il monopolio della violenza. Al contrario, per Acanda, nelle moderne società l’uso della violenza si razionalizza e non si basa più su criteri morali, ma questa passa ad essere monopolio dello Stato. Le condanne non si basano più sulla vendetta, si stabiliscono leggi e metodi di punizione per i delitti a seconda di come sia stato commesso il reato, in che circostanze, ecc.. Inoltre, aggiunge che in questo caso si introduce anche la possibilità di riabilitazione dei criminali, “cosa che in Ecuador non sta succedendo, le carceri non possono essere deposito di persone, né fabbrica di criminali”.

Chi vince, chi perde?
In almeno sei carceri sono stati riferiti disordini durante gli eventi dell’8 e 9 di gennaio. Anche se i media locali raccontano che si è riusciti a soffocare gli ammutinamenti nelle carceri ed a liberare gli ostaggi, Latacunga tra questi, diversi familiari mi hanno confermato che a partire dal sabato non hanno notizie dei loro familiari detenuti. E’ il caso del prigioniero politico Omar Campoverde, per il quale il Movimento Guevarista Tierra e Libertà (MGTL) ha inoltrato una denuncia pubblica.
Gabriela Gallardo, anche lei prigioniera politica, che ha uno dei suoi compagni in questa prigione, racconta che a partire dal lunedì scorso non hanno ingerito quasi nessun alimento.
“Per ore hanno a malapena solo dell’acqua. Ci sono più di cento agenti sequestrati; molti sono stati assassinati. La situazione continua a peggiorare ed il Governo lascia che sia agenti che funzionari ed anche detenuti muoiano tutti allo stesso modo. Nelle carceri ci sono più di 35.000 di persone private della libertà (PPL). Il 90% di questi non appartiene a nessuna banda né sono delinquenti pericolosi. La maggior parte sono persone molto povere, incarcerate con sentenze assurde per delitti minori dal momento che non hanno potuto pagare un avvocato. Ci sono molte persone adulte anziane e persone malate”, ha detto.
Per finanziare il conflitto armato interno, Daniel Noboa ha inviato alla Corte Costituzionale un nuovo disegno di Legge Economica Urgente che propone l’incremento dell’IVA dal 12% al 15%. La denominata Legge Organica per fare fronte al conflitto armato interno dovrà entrare in vigore il primo di marzo del 2024 e prevede una riscossione aggiuntiva di 1071 milioni. L’aumento dell’imposta verrebbe applicata a 208 prodotti dei 359 del paniere base.
Inoltre la deflagrazione dell’8 e 9 di gennaio avviene in parallelo alla proposta di Noboa per una consultazione popolare che avrebbe incluso riforme nell’ambito di attività delle Forze Armate per “prevenire e sradicare le attività di organizzazioni criminali transnazionali”; il controllo delle armi all’ingresso delle carceri; la non incarcerazione per i membri degli organi repressivi durante le indagini; l’incremento delle pene per delitti come terrorismo, traffico di sostanze, tratta di persone, delinquenza organizzata, sicariato e affini, così come l’esecuzione totale della pena in carcere nel caso di questi delitti.
Erano anche previsti la introduzione del reato di porto d’armi per i civili; l’uso di armi, esplosivi o materiale sequestrato dalle forze dell’ordine e di provenienza criminale; la valutazione dei funzionari della Funzione Giudiziaria; la revisione dei procedimenti di rifiuto, deportazione ed espulsione per stranieri ed infine l’autorizzazione per le attività dei casinò, sale da gioco, case di scommesse o imprese impegnate nella realizzazione del gioco d’azzardo.
Successivamente, Noboa ha inviato all’Assemblea Nazionale un nuovo pacchetto di richieste soggette a consultazione che sarebbero state inserite nella Costituzione. In questo caso riguardavano i delitti politici, le riforme della Legge per la confisca dei beni, novità relative alle attività minerarie illegali, leggi “urgenti” in materia economica; provvedimenti di indulto per agenti di polizia e militari; la creazione di giurisdizioni specializzate in materia costituzionale; la possibilità per lo Stato di cedere la sovranità di giurisdizione a organizzazioni di arbitrato internazionale in determinati conflitti; norme secondo cui militari e agenti di polizia vengano giudicati da giudici specializzati in questo ambito in caso di reati commessi durante l’esercizio del proprio ruolo e la legalizzazione dei contratti di lavoro a tempo determinato ed a ore.
Nel mezzo di questa spirale di violenza, l’Assemblea Nazionale e la Corte Costituzionale dell’Ecuador dovranno approvare norme sulla sicurezza, sovranità e leggi economiche urgenti. Il discorso mediatico statale è improntato alla necessità dell’uso legittimo della violenza, più che all’adozione di misure come l’individuazione delle reti di traffico nei porti e nella zona del Pacifico o l’accerchiamento finanziario al narcotraffico. L’Assemblea ed i cittadini dell’Ecuador si vedono pressati a prendere decisioni in merito a questioni legate al trattamento ed all’uso della violenza in un contesto di violenza estrema, dove prolifera la stampa rossa e la narco-narrativa balla di pari passo con la controversa “guerra contro le droghe”.
Non bisogna trascurare che nel caso ecuadoriano il crimine organizzato è strettamente legato al settore bancario. A partire dalla grave crisi finanziaria degli anni 90 (
feriado bancario ), divenne possibile il riciclaggio del denaro attraverso le banche. L’ultima stima del Centro Strategico di Geopolitica (CELAG) ha valutato in 3500 milioni di dollari il denaro sporco riciclato durante l’anno 2021 nel sistema finanziario dell’Ecuador. Questa cifra è tripla rispetto a 1200 milioni stimati per il periodo 2007-2016.
Ed infine, a livello globale, questa guerra tra bande è legata con l’ingresso di nuovi prodotti nel mercato americano, come il fentanyl, molto più facile da trasportare. Per questa ragione, l’industria della cocaina ha dovuto trovare rotte nel Pacifico e quindi lungo la costa ecuadoriana, per raggiungere altri mercati.
In proposito, il presidente della Colombia, Gustavo Petro, ha detto nella Assemblea Generale dell’ONU: “Volevano una guerra contro le droghe della gioventù ribelle che si era opposta alla guerra del Vietnam: la marijuana e l’LSD degli hippies e finirono per portare la società alla droga del neoliberalismo e della competenza, la droga dello yuppie di Manhattan: la cocaina, ed hanno incarcerato milioni di neri e latini in fredde celle privatizzate, sono morti un milione di latinoamericani assassinati distruggendo democrazie nella Nuestra America, ma non hanno incarcerato lo yuppie di Manhattan, e adesso hanno di fronte il grande risultato del proibizionismo sulle droghe: il fentanyl che non uccide 4.000 ma 100.000 giovani all’anno negli USA”.
Facendo un bilancio generale della situazione ecuadoriana, sembra il momento perfetto per l’instaurazione di un capitalismo autoritario nello stile di Milei o Bukele. Si tratterebbe di un autoritarismo quotidiano che si realizzerebbe non solo nella criminalizzazione della protesta, ma anche nell’introduzione di misure neo-liberali, come sta già accadendo con il pretesto di finanziare il conflitto.
Inoltre, la guerra tra bande, è più complessa di quanto la narco-narrativa lasci vedere. Non si tratta di un narcos che evade alla prigione e scatena il caos e tanto meno è un solo uomo colui che muove i fili della violenza. Come gli stessi USA a suo tempo ebbero il Piano Colombia che assicurava la presenza dei loro corpi militari nella regione articolando le proprie reti anche in Messico; assistiamo oggi ad un Piano Ecuador che mostra sempre più chiaramente in che cosa consista. Questa guerra ha molti aspetti: il crimine organizzato stesso è un settore con un conflitto interno. Quindi entra in gioco lo Stato con la sua narrativa sulla sicurezza in scala nazionale e naturalmente, come c’è da aspettarsi, entrano in gioco anche gli alti poteri mondiali che vengono a prendere il meglio da ogni conflitto.
Che odore ha la violenza? Che aspetto ha? Che suono ha? La violenza che ci mostrano i media odora, cammina, suona e si vede come i poveri. Il colletti bianchi, invece, sono gli utilizzatori di altre violenze, quelle che chiamano monopolio legittimo dello Stato. A qualsiasi scala, in qualsiasi conflitto, in qualsiasi paese, i “terroristi”, i “delinquenti”, i “marginalizzati” vengono dalla povertà, dal razzismo strutturale o dalla xenofobia. Laddove lo Stato abbandona, fiorisce il crimine organizzato. Criminalizzare e incarcerare la gente senza ridurre il divario tra disuguaglianze economiche ed opportunità, non potrà essere la soluzione.
https://jovencuba.com/ecuador-narcocorrido/

Lisbeth Moya González è una giornalista e scrittrice marxista cubana

 

 

 

Come è stato possibile che l’Ecuador sia precipitato nell’inferno omicida?
di Luis Córdova-Alarcón

 

L’assalto in diretta di un canale televisivo da parte di gruppi criminali è stata solo la versione spettacolarizzata della spirale di violenza nella quale è caduto l’Ecuador. Come si è arrivati a questa situazione e che prospettive ha la risposta del nuovo presidente, Daniel Nobboa?

 

L’Ecuador è di nuovo sulle prime pagine della stampa internazionale, e di nuovo nella maniera peggiore. Ad agosto del 2023, il motivo era stato l’assassino del candidato alla presidenza Fernando Villavicencio Valencia; ora una sequenza di atti criminali con tattiche terroriste, compreso l’assalto armato ad un canale televisivo nella città di Guayaquil. La giornata che ha messo in stato di shock il paese si è chiusa con la dichiarazione dello stato di “conflitto armato interno” da parte del presidente della Repubblica, Daniel Noboa, e la identificazione di 22 organizzazioni criminali come “terroriste”. Ma com’è arrivato l’Ecuador a questa situazione critica e quali possono essere le derive?
Il 2023 è stato l’anno più violento nella storia del paese: 7.878 crimini, dei quali solo 584 casi sono stati risolti giudizialmente. Con un tasso di omicidi che ha raggiunto la spaventosa cifra di 46 morti ogni 100.000 abitanti, l’Ecuador si è collocato come il paese più violento dell’America Latina. Di fronte ad una situazione tanto critica, si sperava che il nuovo governo – entrato in carica il 23 novembre 2023 – avrebbe fatto il suo ingresso con un piano ben definito sotto il braccio. Ma non è stato così. Anche se Noboa aveva promesso durante la campagna elettorale l’implementazione di un “Plan Fenix” (
https://www.youtube.com/watch?v=FqjEZF9Cuck) per garantire la sicurezza, dalla presa di potere non ha spiegato né come né quando lo farà realmente.
Superato dalle circostanze, Noboa ha optato per una condotta evasiva. Dopo il trionfo elettorale, ha deciso di assentarsi dalla scena pubblica per fare un giro in Europa con la sua famiglia, di modo che tutti i riflettori si sono orientati su Guillermo Lasso e la sua campagna propagandista d’uscita.
Visto in prospettiva, Noboa, un giovane di 36 anni senza precedenti esperienze manageriali, aveva bisogno di guadagnare tempo per risolvere tre urgenze: trovare il denaro per coprire il deficit fiscale, definire la compagine di governo e affinare la sua politica di sicurezza. Ma col senno di poi, non ha raggiunto nessuno di questi obiettivi. Basta analizzare il suo discorso di insediamento, al quale è arrivato senza proposte, senza una compagine di governo al completo e senza un orizzonte in materia di sicurezza. Sette minuti sono bastati per constatare che era un politico inesperto – figlio di un impresario che ha tentato più volte, ma senza esito, di arrivare alla Presidenza – colui che iniziava a governare un paese che era diventato il più violento della regione.
Noboa ha designato Monica Palencia, sua avvocata personale, come ministra del Governo. Quindi ha nominato Giancarlo Loffredo come ministro della Difesa, un cittadino le cui uniche credenziali erano quelle di essere istruttore di difesa personale e tiktokero. Per dirigere il Servizio Nazionale di Assistenza Integrale alle Persone Adulte Private della Libertà e agli Adolescenti Trasgressori (SNAI: Servicio Nacional de Atención Integral a Personas Adultas Privadas de la Libertad y a Adolescentes Infractores), l’organismo incaricato di amministrare il sistema carcerario, ha optato per un generale dell’Esercito in pensione, e in 11 governatorati ha designato poliziotti e militari in servizio passivo. Per due incarichi ad alta sensibilità in materia di sicurezza ha optato per due amici impresari: ad Arturo Felix Wong, già segretario dell’Amministrazione, l’incarico della Segreteria Nazionale di  Sicurezza Pubblica e dello Stato, ed a Miguel Sensi Contugi la nomina a direttore del Centro di Intelligence Strategica dello Stato (CIES). Incarichi attribuiti solo il 2 gennaio; vale a dire 41 giorni dopo l’assunzione del mandato.
In definitiva, il giovane magnate è arrivato alla Presidenza della Repubblica senza piano di sicurezza né personale per realizzarlo, ma con un’ambizione assoluta: conquistare la rielezione nel 2025 a tutti i costi (il suo mandato è corto, dal momento che è entrato in carica per completare il mandato del presidente uscente dopo la “morte crociata” decretata da Lasso al fine di evitare un giudizio politico) [Ndt: La “muerte cruzada” è un meccanismo costituzionale che permette al presidente di sciogliere l’Assemblea Nazionale].
Nonostante queste difficoltà nella elaborazione del suo piano di sicurezza, Noboa sembrava avere fronteggiato la tempesta, principalmente per due ragioni: in primo luogo, prima di assumere l’incarico ha formato una coalizione legislativa con il Partito Sociale Cristiano e Rivoluzione Cittadina (il movimento dell’ex-presidente Rafael Correa). In cambio della cessione a questi partiti del controllo dell’Assemblea Nazionale, comprese le principali commissioni legislative, il presidente è riuscito ad ottenere che il suo primo disegno di legge economica urgente venisse approvato alla velocità della luce. In secondo luogo, all’alba del 14 dicembre, il procuratore generale dello Stato, Diana Salazar, ha diretto un operazione denominata “Metástasis” per incarcerare oltre 30 persone accusate di far parte di una rete del crimine organizzato e narcotraffico. Tra i detenuti, un giudice che ricopriva l’incarico di presidente del Consiglio della Magistratura ed un generale della Polizia Nazionale che era stato direttore della SNAI (vale a dire responsabile del sistema carcerario del paese) e quindi capo della lotta antidroga (vale a dire, responsabile delle operazioni antidroga e principale collegamento con l’Ambasciata degli Stati Uniti). Questo “narco-generale” come è stato denominato dal procuratore Salazar, ha occupato entrambi gli incarichi durante il governo di Lasso.
In questo contesto si produce la clamorosa fuga di Alias Fito, il leader de Los Choneros e probabilmente il delinquente vivo più famoso del paese. Detenuto dal 2009 per aver assassinato la direttora del carcere del Litoral (il carcere più conflittuale dell’Ecuador), evase nel 2013 dopo essere stato trasferito a La Roca, una prigione di massima sicurezza inaugurata dall’ex-presidente Correa, e venne catturato nuovamente mesi più tardi.
Il suo nome assume rilevanza dopo la morte di Jorge Luis Zambrano, alias JL o Rasquiña, nel dicembre del 2020. Fito diventa il leader de Los Choneros, ma questa organizzazione si frammenta e cominciano i massacri in carcere. A partire dal primo, nel febbraio del 2021, e fino all’ultimo, nel luglio del 2023, Fito e Los Choneros emergono come protagonisti dell’onda di violenza che ha cominciato ad avvolgere il paese.
Il 12 di agosto del 2023, per sviare l’attenzione dall’assassinio del candidato a presidente Fernando Villavicencio commesso tre giorni prima, il governo di Lasso decise di trasferirlo nuovamente a La Roca. Ma non passarono neppure dieci giorni che poté tornare nuovamente al Carcere Regionale di Guayaquil grazie ad un provvedimento giudiziario. Ha quindi diffuso un video con un “narco-corrido” composto in suo onore. Ancora una volta, Fito dimostrava al paese il suo potere dal carcere. Perciò quando la notizia della sua fuga divenne pubblica – il 6 di gennaio -, il governo restò nudo di fronte ad un paese sbalordito. Nessuna autorità ha osato riconoscere l’evasione del famigerato criminale, mentre più di 3.500 militari entravano nelle carceri di Guayaquil per inscenare di fronte alle telecamere televisive il fatto che lo Stato “riprendeva il controllo” dei presidi.
Il ciclo di violenza criminale, incompetenza statale e militarizzazione si era riattivato. Ai principi del 2024 iniziarono nuovamente gli ammutinamenti in diverse carceri del paese. L’esigenza era che i capi non venissero trasferiti in altre carceri. Nelle reti sociali venne diffuso un video nel quale si minacciava una guerra nel caso non venissero accettate le loro richieste.
Il lunedì 8 gennaio nel pomeriggio il presidente si fa coraggio e decreta lo stato di emergenza in tutto il territorio nazionale, e nella sera si scatena il vortice: auto incendiate nelle strade, sequestro di agenti carcerari, incendi provocati dentro e fuori delle carceri. Con la luce del giorno lo spettacolo criminale ha acquisito più visibilità ed allo stesso tempo, è diventata evidente l’incompetenza statale: Fabricio Colón Pico, uno dei capibanda de Los Lobos, era evaso pure lui assieme ad altre decine di persone, dal carcere di Riobamba. Coló Pico era stato catturato solo 48 ore prima della sua fuga, dopo che la procura generale di Stato lo aveva individuato come esecutore dell’assassinio di Villavicencio e organizzatore di un attentato contro lo stesso. Tutto questo succedeva durante lo stato di emergenza.
Il martedì, durante il notiziario di mezzogiorno, il canale televisivo TC ha subito un assalto criminale trasmesso dal vivo ed in diretta, con la sua squadra di giornalisti sottomessa e vessata da delinquenti armati di fronte allo scalpore generale. Come era successo con l’assassinio di Villavicencio, le immagini di questo atto hanno fatto il giro del mondo. Nel pomeriggio il governo ha emesso un altro decreto esecutivo dichiarando il “conflitto armato interno” trasformando 22 gruppi criminali in “obiettivo militare”. Così Noboa ha cominciato a sentire il caldo torrido dell’inferno omicida che è diventato questo paese andino.
Per cercare di capire ciò che sta accadendo, propongo di distinguere analiticamente tre variabili dipendenti: la violenza letale (la sua frequenza e visibilità), le economie illecite (tra le quali emerge il narcotraffico) ed i gruppi del crimine organizzato (bande in carcere, bande di strada e strutture mafiose infiltrate nello stato ma operanti anche nell’economia formale). Per spiegare le loro iterazioni userò come evidenza articoli di giornale e giudiziari.
Anni fa Richard Snyder e Angélica Durán Martínez si interrogavano a proposito della relazione tra mercati illeciti e violenza. Sostenevano che quando si istituiscono reti di protezione dall’estorsione sponsorizzate dallo Stato, i livelli di violenza letale nei mercati illeciti sono bassi. Mentre quando queste reti si spezzano, la violenza letale aumenta.
In Ecuador è successo qualcosa del genere? Le prove trovate inducono a pensare di si. Diamo alcuni dati: il 6 giugno del 2016, a Washington DC, l’Agenzia per il Controllo delle Droghe degli Stati Uniti (DEA -Drug Enforcement Agency) ha decorato il ministro dell’Interno dell’allora presidente Correa, José Serrano, per gli “straordinari risultati” ottenuti nella politica antidroga dell’Ecuador. Il comunicato ufficiale citava 332 tonnellate di droga sequestrate dal 2010 e 305 bande di narcotrafficanti sgominate. La propaganda governativa non ha risparmiato sforzi per celebrare l’evento.
Dieci mesi dopo, nell’aprile del 2017, la Polizia colombiana catturò a Washington Prado Álava, alias Gerald, conosciuto nel vicino paese come il “Pablo Escobar ecuadoriano”. Divenne quindi pubblica la sua storia. Gerald cominciò come barcaiolo al servizio della banda Los Rastrojos, nel 2004. Nel 2010 la maggior parte dei capibanda erano stati catturati e Gerald prese il controllo delle rotte marittime da Manabí e Esmeraldas. Si alleò con Los Choneros e riuscì a trasportare più di 250 tonnellate di droga dal litorale ecuadoriano fino agli Stati Uniti tra il 2013 ed il 2017, per mezzo di un sofisticato sistema di trasferimento marittimo.
In altre parole, nello stesso periodo che il governo di Correa ed il vicepresidente Jorge Glas Espinel ottenevano i “migliori risultati” nella loro lotta antidroga – secondo la DEA -, anche la organizzazione criminale dei Los Choneros riusciva ad espandersi e consolidarsi fino a diventare la più grande organizzazione di narcotraffico ecuadoriana. Il governo ed il crimine organizzato hanno vinto entrambi.
Uno dei migliori studiosi del problema carcerario in Ecuador, l’antropologo Jorge Núñez la pensa allo stesso modo. Secondo i suoi studi, Los Choneros si sono rafforzati dentro le carceri grazie al fatto che l’intelligence della polizia contrattava con membri delle bande informazioni in cambio di vantaggi. L’unità di Intelligence Carceraria, creata nel 2014, divenne punto chiave della intelligence antidroga per la Polizia Nazionale. Reclutarono i capibanda delle organizzazioni criminali come informatori e Fito fu uno di essi.
Ciò non toglie che anche durante il governo di Correa siano state attuate politiche di sicurezza per i cittadini con la combinazione di strategie punitive e misure di prevenzione sociale per ridurre la violenza. Ma l’aumento o la diminuzione della frequenza o la visibilità della violenza letale non equivalgono alla espansione o contrazione delle economie illecite tanto redditizie come il narcotraffico.
L’evoluzione del tasso di omicidi in Ecuador mostra una diminuzione eccezionale tra il 2009 e il 2016, passando dal 18,7 al 5,8 morti per ogni 100.000 abitanti. Ma dal 2019 la tendenza si inverte. Quindi, tra il 2017 e il 2018 c’è un punto di flessione che necessita una riflessione. Cosa è successo in quel periodo? Stando alla tesi di Snyder e Durán Martínez, la rete di protezione dalla estorsione promossa dallo Stato si è spezzata e si è scatenata la violenza criminale.
Rivoluzione Cittadina trionfa nuovamente con il binomio formato da Lenín Moreno e Jorge Glas Espinel. Nel gennaio del 2017 inizia il loro mandato. A metà anno, Moreno rompe con il correismo ed in novembre inizia il procedimento penale nei confronti dell’ex-vicepresidente Glas, accusato di associazione illecita nel caso Odebrecht. In dicembre dello stesso anno la sentenza lo condanna a sei anni di carcere (più tardi subirà altre due sentenze per delitti più gravi, ma nel 2022 riacquista la sua libertà grazie a un’operazione giudiziaria finanziata dal narcotrafficante Leandro Norero). Nel gennaio del 2018, con Glas in carcere, scoppia una violenza criminale inedita fino ad allora nel paese.
Alias Guacho, leader del Fronte Oliver Sinisterra, un gruppo residuale delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) che operava nella zona di frontiera a Nord dell’Ecuador, il 27 gennaio del 2018 piazzò un auto bomba nella caserma di polizia San Lorenzo nella provincia Esmeraldas. Due mesi più tardi, fonti ufficiali colombiane informarono l’Ecuador che lo stesso gruppo criminale aveva sequestrato lo staff di giornalisti del quotidiano El Comercio. Nell’inerzia assoluta del governo ecuadoriano, i tre giornalisti furono assassinati.
Fino ad allora, questi atti erano incomprensibili per la società che li osservava con stupore. Tuttavia, nell’Ottobre del 2018, Polizia e Procura avviano l’operazione “Camaleón”, nell’ambito della quale si realizzarono sette raid in quattro province, inclusi gli uffici del Comando dell’Esercito ecuadoriano. Sgominando così una rete di militari in servizio attivo e civili che trafficavano in armi, munizioni ed esplosivi con i gruppi criminali della frontiera Nord: tra cui el Frente Oliver Sinisterra.
Con questi atti di terrore, la organizzazione di alias Guacho pretendeva dalle sue controparti statali che mantenessero i loro impegni, ma questo non poteva essere fatto impunemente, da quando Glas e diversi dei suoi seguaci avevano perso il loro potere politico. Ora per esempio si sa che Rasquiña (il capo storico dei Los Choneros) e Glas condividevano lo stesso avvocato: Harrison Salcedo, assassinato nell’aprile del 2021 da un sicario.
Il nesso crimine-Stato nel contesto latinoamericano è stato studiato a fondo da Alejandro Trejo e Sandra Ley. Questi politologi riconcettualizzano questa relazione sotto il concetto della “zona grigia della criminalità”: un area che nasce nella intersezione di due gruppi, quello dei criminali e quello degli agenti statali. Sostengono che, mentre un regime politico diventa autoritario, questa zona grigia della criminalità cresce e si consolida proprio per garantire la stabilità del regime.
Durante il governo di Correa-Glas (2013-2017) questa “zona grigia di criminalità” si espande. Il libro di Juan Carlos Calderón, Dopo dimenticheranno i nostri nomi, mostra fino a che punto vennero strumentalizzati gli apparati di sicurezza per fini criminali. E durante i governi di Moreno e Lasso niente venne fatto per mitigare la situazione. Cambiano i nomi dei funzionari e dei criminali implicati, ma non le regole informali di questi patti mafiosi che si oliano con il denaro sporco del narcotraffico.
Un immagine concreta di ciò è l’industria criminale delle “narcobanane”. La rivista digitale Plan V ha documentato il caso delle narcobanane più emblematico nel dicembre del 2019. Il fatto è legato a Arbër Çekaj, un albanese dedito alla esportazione delle banane dall’Ecuador e dalla Colombia in Europa. Nonostante che nel 2015 fosse stato accusato di aver contaminato casse di banane con cocaina, continuò ad esportare la frutta fino al 2018 su quella stessa rotta dall’Ecuador. L’articolo citato sostiene che  “Çekaj aveva registrato l’impresa Arbri Garden nel maggio del 2012 e cominciò subito a mandare banane dall’Ecuador all’Albania. Secondo i registri delle esportazioni di  Arbri Garden, l’albanese trasferì banane nel suo paese per il tramite di 18 aziende ecuadoriane esportatrici di questa frutta”. E aggiunge che l’Albanese “era un uomo di basso profilo fino al 28 febbraio del 2018. Quel giorno la Polizia albanese emise un ordine di cattura contro  Çekaj e vennero quindi trovati 613 kili di cocaina in uno dei suoi magazzini.
Il 31 di marzo del 2022 il
portaledigitale La Posta ha resopubblico un video nelqualevenivanegoziatala carica di viceministro dell’Agricoltura per 2.800.000 dollari. Il 21 di luglio del 2022 la Polizia fece irruzioni in quattro province per catturare otto persone appartenenti a una rete criminale dedicata a vendere cariche in enti pubblici come il Servizio Nazionale delle Dogane del Ecuador (SENAE). Una delle abitazioni oggetto di irruzione era quella del politico Juan José Pons, che ricopriva la carica di consigliere ad honorem di Lasso nella Presidenza della Repubblica. Il comunicato della Procura ha reso noto che erano stati offerti circa tre milioni di dollari per la Vice Direzione delle Operazioni Doganali. Il comunicato si conclude precisando che la somma era stata messa a disposizione dagli esportatori in cambio della promessa di benefici futuri. La principale industria di esportazione ecuadoriana era quindi soffocata dai tentacoli del crimine organizzato.
Questo è un altro fattore che alimenta la spirale omicida, e nessun governo riesce a farvi fronte in maniera efficace. Tanto meno Noboa, la cui famiglia è proprietaria della più grande azienda ecuadoriana esportatrice di banane.
Recentemente Andreas Feldmann e Juan Pablo Luna hanno colpito nel segno suggerendo l’importanza di ripensare la relazione tra le istituzioni e il modello di sviluppo dei paesi latinoamericani, dal momento che i periodi di crescita economica possono nascondere la “trappola dello sviluppo della economia illecita”, così come è successo nel caso Ecuador. Come si osserva, né lo smantellamento istituzionale nel settore della sicurezza né le politiche di adeguamento fiscale spiegano completamente l’onda di violenza omicida che consuma il paese. La violenza letale e la grave criminalità che erodono l’Ecuador sono un fenomeno sociale complesso, dinamico ed entropico, che ha bisogno di una maggiore ricerca empirica oltre che di distacco ideologico.
La dichiarazione di “conflitto armato interno” da parte del presidente Noboa calza come un anello al dito con la strategia preparata dal Pentagono da quando Lasso ha prospettato alla Casa Bianca la necessità di un “Plan Ecuador” l’8 giugno del 2022. In dicembre dello stesso anno, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato la “Legge di Associazione Ecuador-Stati Uniti” in modo che entro 180 giorni il Dipartimento di Stato disegnasse una strategia in intervento per il paese sudamericano. In questo contesto alla metà del 2023 è stato costituito un Gruppo di Lavoro Bilaterale di Difesa in entrambi i paesi, che di comune accordo hanno disposto lo stanziamento di oltre 3.100 milioni di dollari per il rafforzamento delle Forze Armate ecuadoriane. L’accordo si svilupperà in un lasso di tempo di 7 anni, fino al 2030. Infine, a ottobre del 2023, il primo ministro ecuadoriano e l’ambasciatore degli Stati Uniti hanno firmato l’”Accordo relativo allo Statuto delle Forze”, che stabilisce i privilegi, sussidi e condizioni che avranno il personale del Dipartimento di Difesa ed i suoi contraenti stranieri in territorio ecuadoriano.
Così, l’ultimo ciclo di violenza criminale ha aperto una finestra di opportunità perché l’alto comando delle Forze Armate e l’Ambasciata degli Stati Uniti possano modificare lo scenario strategico in proprio favore. Con la dichiarazione di “conflitto armato interno”, le Forze Armate assumono la direzione dello Stato, subordinando la Polizia Nazionale e facendo cessare le richieste di spiegazione sui propri membri per l’infiltrazione del crimine organizzato.
In queste circostanze, la dichiarazione di “conflitto armato interno” sta generando l’effetto desiderato dalle élite economiche, nel quadro di una progressiva militarizzazione della società.
Se questi piani funzioneranno, Noboa potrà trasformarsi in una sorta di “Bukele sudamericano” e prorogare il suo mandato come tanto desidera. Per ora, ha offerto due carceri in stile salvadoregno e pretende di imporsi a ferro e fuoco con gli applausi di una società terrorizzata per la “minaccia terrorista”. Ma  con le forze di sicurezza contaminate dal crimine organizzato, resta solo una certezza: dopo la violenza criminale ci sarà quella politica, e l’Ecuador non uscirà dalla spirale di violenza che lo sferza.
https://nuso.org/articulo/como-ecuador-descendio-al-infierno-homicida/

Luis Córdova-Alarcón è coordinatore del programma di Ricerca, Ordine, Conflitto e Violenza dell'Università Centrale dell'Ecuador.


Traduzione a cura di Patrizia B., Patria Grande, CIVG

 

Articolo originale: Ecuador: Lo Que Hay Detrás Y Respuestas Feministas. Dossier

https://sinpermiso.info/textos/ecuador-lo-que-hay-detras-y-respuestas-feministas-dossier