Il soldato ed il mercante. L'ideologia liberal-capitalista della pace mondiale.

 

"È lo spirito commerciale che non può coesistere con la guerra e che prima o poi si impadronisce d’ogni popolo. Poiché, di tutte le forze subordinate (come mezzi) al potere dello Stato, la forza del denaro sembra la più sicura, avviene che gli Stati si vedono costretti (non certo da motivi morali) a promuovere la nobile pace e, ovunque la guerra minacci di scoppiare nel mondo, a impedirla mediante compromessi, come se gli Stati fossero a tale scopo uniti in alleanze permanenti."

Kant, Per la pace perpetua

 

 

L'argomento che più frequentemente viene fatto valere dagli avversari della sovranità nazionale è che essa condurrebbe inevitabilmente alla guerra. Secondo l'ideologia dominante, un mondo di Stati sovrani non può essere un mondo pacifico, e lo dimostrerebbero gli innumerevoli conflitti che hanno funestato la modernità, ed in particolare le due guerra mondiali. La crisi della sovranità “classica”- causata dalla crescente interdipendenza economica delle diverse regioni del mondo (la cosiddetta “globalizzazione”) e dai processi di integrazione interstatali (particolarmente evidenti nel caso dell’Europa) - andrebbe quindi salutata con favore come l’inizio di un nuovo sistema di relazioni che sostituisca la vecchia politica di potenza con una nuova politica dell’etica e della “responsabilità”, più attenta ai bisogni delle minoranze e degli emarginati che ad obiettivi di tipo militare o geopolitico. Una simile “politica della responsabilità” trova un contenitore ideale non tanto nella formula dello Stato sovrano quanto nella compagine di organizzazioni non governative, organismi internazionali e reti umanitarie. Tesi simili potrebbero essere criticate con facilità. Ad esempio, si potrebbe fare notare che le guerre esistevano ben prima che nascesse il primo Stato modernamente inteso, oppure che la stessa dissoluzione della sovranità in realtà è dissoluzione della sovranità di alcuni Stati a vantaggio di altri, i quali invece mantengono intatte le loro prerogative ed il loro apparato coercitivo. Tuttavia in questa sede vorrei riflettere sulla “logica genetica” che presuppone questo discorso ideologico.

 

 

Ben lungi dall'essere solo il frutto dell'esperienza storica recente, questa logica affonda le radici nel cuore del pensiero dominante, che possiamo chiamare “liberale”. Prima di proseguire, occorre una avvertenza: l’aggettivo “liberale” non verrà usato in questa sede per designare una particolare corrente filosofica, scuola economica o fazione politica, quanto piuttosto un paradigma culturale, che nel corso degli ultimi due secoli ha conquistato l’egemonia in Occidente, unificando al proprio interno fenomeni e posizioni molto differenziate o addirittura opposte, almeno in apparenza. Questo paradigma nel corso della storia ha conosciuto profonde modificazioni, in particolare negli ultimi decenni (come dimostra la sua più recente mutazione, il neoliberalismo[1]); tuttavia credo che il suo nucleo fondante, la sua logica genetica, sia rimasto sostanzialmente costante.

Per capire in che cosa consista questo nucleo credo sia utile rifarsi alle tesi del sociologo francese Jean Michèa.  Secondo l’interpretazione di Michèa la matrice del pensiero liberale risale ai conflitti religiosi che ebbero luogo nell'Europa nel XVI-XVII secolo. Va ricordato che la caratteristica delle cosiddette guerre di religione non fu tanto la loro crudeltà (superata da molti conflitti precedenti e posteriori) quanto la loro natura “anti-sociale” di “guerra di tutti contro tutti”. Le società interessate dai conflitti religiosi (ricordiamo la Germania e l’Inghilterra) si lacerarono in una miriade di fazioni opposte, ognuna delle quali si legittimava richiamandosi ad un Bene superiore, più nello specifico al volere divino.

Il trauma delle guerre di religione portò i precursori del liberalismo a ritenere che qualsiasi idea di bene sovra-individuale, in quanto opinabile e relativa, fosse foriera di divisioni e quindi di conflitti violenti. E’ chiaro infatti che se un individuo o un gruppo di individui ritengono di essere i portatori dell’unica verità assoluta, probabilmente tenteranno di imporre le loro convinzioni al resto della società, anche con la violenza se necessario. In questo senso il paradigma liberale nasce dalla domanda: come è possibile assicurare la coesistenza tra gli individui e i gruppi senza implicare una qualsivoglia idea di bene o di valori condivisi? In contrasto con le concezioni religiose o filosofiche tradizionali, il liberalismo ha risposto elaborando un'antropologia puramente individualistica, secondo la quale l'unica condotta "naturale" per gli esseri umani sarebbe la preservazione dei propri interessi individuali attraverso un calcolo intelligente degli strumenti da impiegare. Così facendo il liberalismo ha delegittimato le pretese di chi invece individuava la corretta condotta individuale e collettiva nella conformazione alla “verità”, al “bene”, alla “giustizia” variamente intesi. Tuttavia a questo punto sorge una nuova domanda: dal momento che gli interessi individuali spesso entrano in contraddizione, come è possibile evitare il riemergere della guerra di tutti contro tutti? Per scongiurare questa eventualità il liberalismo ha individuato un luogo in cui può avvenire la pacifica composizione degli interessi individuali: non una (impossibile) comunità etico-politica, bensì il Mercato. Chiaramente non si tratta del un “luogo” fisico dove avviene lo scambio economico (sebbene nelle civiltà premoderne il significato della parola mercato fosse limitata a questa accezione), ma del luogo ideale dove avviene la riconciliazione degli egoismi individuali in base all’unica costante che accomuna tutti gli uomini, ovvero la propensione ad ottimizzare il proprio interesse, propensione che nel mercato si concretizza nello scambio di merci. Tuttavia nella letteratura liberale (antica e moderna) il Mercato non è una semplice istituzione intesa come costruzione storica, ma come una appendice della natura fisica, una sua estensione: in questo senso il liberalismo ha sancito una vera e propria naturalizzazione del sociale. Allo stesso modo della natura, il Mercato possederebbe delle leggi oggettive e necessarie, “neutre”, che non implicano giudizi di valore e che di conseguenza possono essere accettate da tutti.

A mio parere il modello liberale di società è magnificamente riassunto da un passo riportato da Voltaire nelle sue memorie. Il filosofo francese parlando della Borsa di Londra, da lui visitata durante la sua permanenza nell’Inghilterra degli albori del capitalismo, afferma:

“Entrate nella Borsa di Londra, un luogo più rispettabile di tante Corti: vi vedrete riuniti i deputati di tutte le nazioni per l’utilità degli uomini. Là l’ebreo, il musulmano e il cristiano negoziano come se fossero della stessa religione, e non danno l’appellativo di infedeli se non a coloro che fanno bancarotta; là il presbiteriano si fida dell’anabattista e l’anglicano accetta la cambiale dal quacchero. Uscendo da queste pacifiche e libere assemblee, gli uni si recano in sinagoga, gli altri vanno a bere; l’uno va a farsi battezzare in una grande tinozza nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, l’altro fa tagliare il prepuzio a suo figlio e borbottare sul bambino parole ebraiche che non comprende; altri vanno nella loro chiesa, col cappello in testa, ad aspettare l’ispirazione divina; e tutti sono contenti.”

Troviamo qui perfettamente espressa quella concezione della società come bazar che è stata elaborata in tempi recenti dal pensatore postmoderno americano Richard Rorty: gli individui, atomi individuali che non hanno di per sé nulla in comune, si riuniscono per scambiarsi merci e informazioni, dopodichè ognuno torna alla propria sfera privata ed alla propria legittima, quanto irrilevante, identità religiosa, verso la quale Voltaire fa valere un senso di benevolo disprezzo. Il potenziale conflittuale delle idee religiose (solo pochi decenni prima presbiteriani, anabattisti e anglicani si erano sterminati a vicenda) viene neutralizzato così dalla volontaria e necessaria sottomissione alle leggi dello scambio economico, che lascia sussistere le particolarità individuali e collettive l’una accanto all’altra, senza coinvolgerle in un progetto collettivo che non potrebbe fare a meno dell’idea sovra-individuale e arbitraria di giusto e sbagliato, di desiderabile e indesiderabile.

Il lettore si starà probabilmente chiedendo in che modo la lunga premessa sul paradigma liberale si collega al problema della sovranità e della guerra tra Stati. La risposta è semplice, ed è già contenuta delle righe precedenti. Il modello liberale di società non solo delegittima alla base l’idea stessa di appartenenza sovra-individuale, compresa quella nazionale, ma rende letteralmente in-significante lo stesso concetto di confine, di frontiera. Per lo spirito mercantile (oggi diremmo capitalista) la frontiera tra Stati è esclusivamente un ostacolo da superare in vista di una valorizzazione sempre più spinta, non un delimitatore di una comunità politica e storica (ovvero la nazione). Per il capitalismo le differenze nazionali sono altrettanto irrilevanti delle differenze religiose, e le osservazioni di Voltaire circa presbiteriani, anabattisti e anglicani potrebbero essere estese ai popoli tedesco, francese e inglese. Quanto alle guerre, esse nascono dai pregiudizi legati alle identità nazionali (che vanno così a recitare un ruolo simile alle appartenenze religiose), le quali fanno credere agli individui di essere legati da doveri ed obblighi (in primo luogo la disponibilità al sacrificio) ad una comunità che li trascende, oppure più “materialisticamente” alla difforme distribuzione delle risorse naturali e delle ricchezze. Il Mercato supera tutte e due le cause, rimuovendo l’idea stessa di identità comunitaria e ottimizzando la distribuzione dei beni, il tutto senza bisogno di appellarsi ad una qualsivoglia morale o perfino ad un progetto politico consapevole. In altre parole solo il Mercato, che non conosce nè frontiere nè pregiudizi religiosi o nazionali, può "vaccinare" la società umana tanto dalla guerra interna (tra individui) quanto da quella esterna (tra Stati).

 

 

La teoria liberale sembra essere stata confermata dalla storia del XX secolo, che è stato testimone di due conflitti mondiali in cui gli Stati nazionali ed il concetto di "patria" hanno giocato un ruolo fondamentale. La stessa Seconda guerra mondiale, normalmente interpretata come conflitto ideologico, è stata in gran parte una guerra nazionale classica; perfino la lotta tra nazionalsocialismo tedesco e comunismo sovietico fu vissuta da entrambe le parti come una questione intimamente nazionale, per la precisione di espansione nazionalistica (e razzistica) nel primo caso e di resistenza patriottica nel secondo (è noto che la storiografia sovietica ha utilizzato la dizione di “Grande guerra patriottica” riferita alla seconda guerra mondiale).

Per questo motivo a partire dal 1945 il progetto di pacificazione del mondo mediante l'economia ha conosciuto una netta accelerazione. Sono esemplificative di questa tendenza due grandi personalità del '900, cioè l'economista Friedrich August von Hayek ed il padre dell'Unione Europea Jean Monnet; entrambi ritennero che solo l'abolizione degli Stati nazionali avrebbe scongiurato il pericolo di nuove guerre globali, e che il motore del superamento della sovranità statale sarebbero stati i meccanismi economici.

Jean Monnet è una figura poco conosciuta che però ha recitato un ruolo di primissimo piano nelle vicende del Novecento. Oltre ad avere ricoperto importanti incarichi in diversi istituti finanziari, Monnet è stato un funzionario del governo francese ed inglese; tuttavia è passato alla storia per essere stato il più coerente sostenitore dell’integrazione europea, nonché il padre della Ceca, l’embrione dell’attuale UE. Diffidente verso la democrazia e sostenitore di un modello “tecnocratico”, Monnet fu un tenace avversario dello Stato nazionale. Durante la conferenza della resistenza francese ad Algeri nel 1943, Monnet affermò:

“Non vi sarà pace in Europa se gli Stati saranno ricostituiti sulla base della sovranità nazionale, con tutto ciò che segue in termini di politica di potenza e di protezionismo economico. (…)

E' inoltre importante che esse [le nazioni europee] non utilizzino una frazione considerevole delle loro risorse allo scopo di mantenere delle supposte industrie "chiave" per venire incontro alle esigenze della difesa nazionale, industrie che sono rese obbligatorie dall'attuale forma dello Stato, con la sua "sovranità nazionale" e le tendenze protezioniste, come quelle che abbiamo visto prima del 1939.”

Il passo illustra bene l’equazione tra sovranità, politiche di potenza, protezionismo e guerra. La soluzione prospettata da Monnet è ben nota, e la sua “impronta” è dominante ancora oggi. Se il protezionismo è alla base della guerra, l’apertura dei mercati nazionali renderà impossibile i conflitti violenti; se le politiche di potenza delle nazioni hanno devastato l’Europa, la creazione di organismi sovra-nazionali (o meglio a-nazionali), di tipo sostanzialmente tecnico e “neutrale”, garantirà la pace. Il carattere assiologicamente neutro di un simile progetto è sottolineato da Monnet nella sua corrispondenza privata e nelle sue memorie, dove ribadisce che l’integrazione europea debba avere l’obiettivo di unire non delle nazioni, ma degli individui, e che tale unione non può che fondarsi sulla base degli interessi dei soggetti in causa.

Ancora più interessante è l’analisi del pensiero di Hayek, uno dei più influenti economisti del Novecento, considerato a torto o a ragione il maestro della scuola neoliberale egemone nei paesi anglosassoni a partire dagli anni ’80.  Rigoroso sostenitore del liberoscambismo e del libero mercato, Hayek è autore nel 1939 di un saggio intitolato Le condizioni economiche del federalismo interstatale, dove caldeggia l’abolizione degli Stati nazionali in favore di un modello federale. Hayek prende le mosse proprio dal problema della guerra tra Stati:

“Uno dei difetti principali del liberalismo del diciannovesimo secolo è che i suoi sostenitori non realizzarono chiaramente che l'armonia tra gli interessi degli abitanti di diversi stati era possibile solo in un contesto di sicurezza internazionale.”

In altre parole, solo la pace mondiale può garantire quella realizzazione individuale che è lo scopo del progetto liberale.

In secondo luogo, Hayek tocca la questione del protezionismo e della politica di potenza nazionali quali cause delle guerre, andando però più in profondità di Monnet:

“Nell'attuale Stato nazionale le ideologie correnti rendono relativamente semplice convincere il resto della comunità che è nel suo interesse proteggere la "sua" industria dell'acciaio o la "sua" produzione di grano e così via. Un elemento di orgoglio nazionale verso la "loro" industria e considerazioni legate alla potenza nazionale in caso di guerra generalmente inducono le persone al sacrificio. La convinzione decisiva è che il sacrificio vada a vantaggio dei propri compatrioti, i cui interessi sono sentiti come vicini ai propri.”

Hayek riconosce che la dimensione nazionale non si riduce alla semplice esistenza di un apparato statale che esercita un potere territoriale, ma che comporta una sorta di “simpatia”, un sentimento di “sentire-con” che crea un legame psicologico tra gli appartenenti alla stessa nazione. In altre parole, Hayek riconosce l’esistenza della nazione come comunità, una comunità che si fonda su una storia comune e su costanti culturali e geografiche; chiaramente Hayek sottolinea l’incompatibilità di questa “simpatia” comunitaria con il liberalismo, che invece riconosce il primato della dimensione puramente individuale. Tuttavia non cade nell’errore commesso dai nazionalisti (coloro che hanno una concezione mitologica della nazione) e dai cosmopoliti, e riconosce che la comunità nazionale non è un blocco compatto, essendo solcata da conflitti tra gruppi sociali:

“Frontiere economiche di questo tipo [ovvero legate all'esistenza di Stati nazionali sovrani, nota mia] creano comunità di interesse su base regionale, di carattere più profondo: esse fanno sì che tutti i conflitti di interesse tendano a diventare conflitti tra gli stessi gruppi di persone, invece di essere conflitti tra gruppi con una composizione variabile, e di conseguenza si avranno conflitti permanenti tra individui che appartengono ad uno stesso Stato, invece che tra individui diversi, che si trovano una volta ad essere schierati a fianco un gruppo di persone contro un altro, la volta successiva a fianco del secondo gruppo contro il primo in merito ad una diversa questione.”

L’espressione corretta, che Hayek non usa forse per prevenzione ideologica, è “lotta di classe”. Nella dimensione nazionale la lotta di classe assume un carattere più definito, meglio delineato e più determinante. Non si può non pensare ad un fondamentale quanto negletto passo del Manifesto del partito comunista, che recita:

“La lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo lotta nazionale, anche se non sostanzialmente, certo formalmente. E` naturale che il proletariato di ciascun paese debba anzitutto sbrigarsela con la propria borghesia.”

Al contrario, in uno spazio sovranazionale unificato solo dai flussi mercantili, la lotta di classe sarà più confusa, incorporerà troppe variabili e si segmenterà in un insieme eterogeneo e mutevole di singole rivendicazioni. In questo modo il superamento della sovranità nazionale garantirà anche la pace sociale (ovviamente “pace” nel senso liberale del termine). Dopo aver dimostrato che solo con il superamento della nazione il modello liberale può inverarsi appieno, Hayek si domanda come verranno gestite le prerogative normalmente affinate allo Stato:

“Vista la differenza degli stili di vita, delle tradizioni e dell'educazione che esisterebbe in una simile federazione, certamente sarebbe impossibile raggiungere un consenso democratico intorno ai problemi centrali [della pianificazione economica]. (...) Il risultato è che in una federazione i poteri economici che ora sono generalmente gestiti dagli Stati nazionali non sarebbero esercitati né dalla federazione né dai singoli Stati.”

In altre parole, le prerogative economiche dello Stato sarebbero semplicemente demandate al Mercato. Hayek ci sta dicendo che la democrazia è incompatibile con il pieno dispiegamento del liberalismo economico, e che essa è legata proprio alla comunità nazionale, al di fuori della quale l’eccessiva eterogeneità culturale impedisce la costruzione di un consenso popolare.

 

 

E’ senza dubbio curioso che queste tesi siano state portate avanti da un economista usualmente ritenuto “di destra” e non dalle forze politiche eredi del socialismo e del comunismo, forze che al contrario oggi appaiono in prevalenza ancorate ai più retrivi pregiudizi cosmopoliti.

Il paradosso può essere spiegato ricorrendo al concetto di “paradigma liberale”. Spesso il liberalismo è considerato sinonimo di conservatorismo e quindi di “destra”. Questo giudizio è stato smentito dallo stesso Hayek, che nel saggio Perché non sono un conservatore respinse recisamente una simile etichetta. I conservatori - argomentava l’economista austriaco – sono coloro che vorrebbero il liberalismo economico mantenendo però i “valori tradizionali” quali la famiglia, la religione e la nazione. Al contrario un liberale autentico (e tale si considerava Hayek) non può che deprecare il “protezionismo dei valori” tanto quanto quello economico.

 La sinistra occidentale rappresenta un esempio speculare: essa vorrebbe l’emancipazione dai pregiudizi religiosi, sessuali e culturali, rifiutando però (anche se sempre meno spesso) il liberalismo economico. Tuttavia la sinistra occidentale riferisce la parola “pregiudizio” non solo al razzismo, all’omofobia e allo sciovinismo (che come tali vanno effettivamente condannati), ma in generale a qualsiasi appartenenza sovra-individuale: ogni identità collettiva, perfino quella biologica della differenza di genere sessuale, deve essere respinta in quanto rappresenta una “discriminazione” semi-religiosa, qualcosa di puramente opinabile che va relegato alla sfera privata e lasciato all’arbitrio dei singoli. Il punto è capire che liberalismo economico e liberalismo dei costumi sono due facce della stessa medaglia, sono due determinazioni dello stesso paradigma culturale, il quale postula un individuo-atomo che regola i rapporti (improntanti alla competizione) con i propri simili sulla base dello scambio mercantile e del diritto astratto. Questa semplice verità è stata colta alla perfezione dallo scrittore francese Michel Houellebecq, che nel romanzo Estensione del dominio della lotta sostiene attraverso la voce narrante:

“Il liberalismo economico è l’estensione del dominio della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi sociali. Ugualmente, il liberalismo sessuale [e più in generale dei costumi, nota mia] è l’estensione del dominio della lotta a tutte le età della vita e a tutte le classi sociali.”

L’unificazione della cultura di destra e di sinistra ad opera dello stesso paradigma spiega l’esistenza di una “estrema sinistra liberale”, anti-capitalista a parole ma in realtà dedita prevalentemente a battaglie “di costume”, che nella migliore delle ipotesi sono innocue per lo status quo e nella peggiore lo rafforzano, eliminando qualsiasi istanza politica o culturale esterna al Mercato. Le modalità con le quali è storicamente maturata una tale “convergenza degli opposti” non possono essere affrontate in questa sede, ma dovrebbero essere oggetto di riflessione per chiunque si ponga in un’ottica realmente antagonistica rispetto al sistema politico ed economico dominante.

 

 

Nonostante l'egemonia del pensiero liberale di destra e di sinistra, possiamo dire che esso non ha realizzato la promessa della pace mondiale, e che la dissoluzione delle sovranità abbia provocato più conflitti di quanti non ne abbia prevenuti. Il fallimento della promessa liberal-capitalista di un mondo pacificato dall'economia apre nuove prospettive per chi intende riscoprire l'intreccio tra sovranità, identità nazionale e liberazione sociale. Per mantenere vitale questo intreccio, la questione nazionale non dovrà essere impostata in modo da fare con la nazione quello che il liberalismo fa con il Mercato, ovvero “naturalizzarla” e trasformarla in un ente intrascendibile. Questo punto è fondamentale, visto che effettivamente la nazione è stato utilizzato per legittimare le mire imperialistiche delle grandi potenze e per occultare l’esistenza delle classi sociali con ipocriti richiami all’“unità nazionale”. Al contrario, la nazione è una costruzione storica, la sua genesi non è stata uniforme in tutto il mondo e non ha mancato di creare profonde contraddizioni (comprese quelle di classe). La nazione andrà considerata piuttosto come la cornice di senso all’interno della quale coltivare pratiche di lotta sociale e di resistenza alle strategie dell’imperialismo. La stessa democrazia, se non vuole rimanere un semplice contenitore di individui-atomi, non potrà ignorare la simpatia che le è associata, il “sentire-con” che è indispensabile per qualsiasi progetto di trasformazione collettiva. In quest’ottica, la valorizzazione della particolarità nazionale non è per nulla incompatibile con l’universalismo dell’emancipazione umana, anzi ne rappresenta il fondamento necessario, senza il quale l’universalismo si pietrifica in una dimensione astratta. Quello che può suonare come un paradosso non è altro che la giusta concezione dell’inter-nazionalismo, così come lo hanno storicamente inteso i movimenti rivoluzionari del Novecento, da Cuba alla Cina al Vietnam. Per questi motivi ritengo che anche oggi, all’indomani del tramonto della tradizione anti-coloniale e anti-imperialista novecentesca, la sintesi tra liberazione nazionale e liberazione sociale rimanga l’orizzonte privilegiato della critica e della prassi trasformativa.

 

 

 

Per approfondire:

 

Michèa Jean Claude, L'impero del male minore. Saggio sulla civiltà liberale. Libri Scheiwiller, 2008.

 

Hayek Friedrich August, The Economic Conditions of Interstate Federalism. In: Individualism and Economic Order, The University of Chicago Press, 1948, p. 255-282. Da www.mises.org

 

Monnet Jean, Jean Monnet's thought on the future (Algiers, 5 August 1943). Da www.cvce.eu

http://www.youtube.com/watch?v=xwCOGG918N4 (intervista a Michèa, sottotitoli in italiano)

 

Alain de Benoist: Michèa, basta con la sinistra. Avanti col socialismo! http://ideeinoltre.blogspot.it/2014/01/alain-de-benoist-michea-basta-con-la.html

 



[1] Per le differenze tra liberalismo classico e neoliberalismo si veda il volume di Giovanni Leghissa Neoliberalismo, 2012 Mimesis. In sintesi, Leghissa individua la discontinuità in tre punti:

a)       Il liberalismo classico, pur relegando alla sfera privata i valori ed in generale tutti gli elementi non riconducibili alla dimensione del calcolo economico, sosteneva la loro legittimità e la loro necessità per il funzionamento della società e la felicità individuale. Al contrario il neoliberalismo estende la logica del calcolo utilitario anche alla sfera privata.

b)       Il liberalismo classico era scettico circa la possibilità di conoscere le leggi del Mercato, il neoliberalismo invece ne postula la completa trasparenza.

c)       Il neoliberalismo sostiene un ruolo attivo dello Stato nell’estensione della logica del mercato a tutti gli ambiti della società.  In questo senso quindi esso si fonda su una simbiosi tra sfera politica e sfera economica, che invece nel liberalismo classico erano distinte.